Gli archivi conservano tracce, testimonianze, dati e narrazioni fondamentali per comprendere il passato, dare senso al presente e orientare il futuro.
Nel recente passato l’incontro tra informatica e cultura archivistica ha consentito, da una parte, di velocizzare e organizzare i processi di ordinamento e di ripristino delle serie storiche, lasciando, d’altra parte, inalterata la procedura pratica che la disciplina archivistica indicava. Questa situazione ha portato allo sviluppo di software di archivistica che, standardizzando le caratteristiche e, avendo una flessibilità particolare, hanno consentito un forte impulso all’incremento dei lavori di sistemazione di archivi, soprattutto dei privati.
Le nuove tecnologie, dunque, non hanno portato ad una modifica delle pratiche in uso, poiché hanno avuto la caratteristica di associare i sistemi informatici con le esistenti regole archivistiche, ma hanno consentito di raggiungere risultati positivi in termini di velocità di realizzazione dei report, di stesura degli elenchi di consistenza e degli indici, insieme alla maggiore facilità di aggiornamento – costante nel tempo – che in precedenza restava complicato.
Tuttavia, la domanda resta: l’uso dell’intelligenza artificiale comporta una diversa cultura archivistica? Diventa urgente cambiare le impostazioni o l’approccio alla materia, ridefinendone le condizioni di gestione e di ordinamento?
Il modo in cui si conserva e si trasmette la memoria ha subito modifiche poiché in un mondo sempre più digitale, la tecnologia offre strumenti per organizzare, ordinare e rendere accessibile il patrimonio culturale, sollevando anche nuove domande etiche, epistemologiche e operative. La fase transitoria per la digitalizzazione dei documenti, che ha coinvolto negli anni passati – anche in virtù di forti finanziamenti – la Comunità europea, ha avuto un discreto successo. Era la spinta all’innovazione, alla voglia di fare “rete” tra soggetti detentori di archivi per una consultazione facile e una visibilità e diffusione generale. Aggiungendo a ciò la salvaguardia e la conservazione dei documenti a più lunga scadenza rispetto al supporto cartaceo.
Tuttavia, se la natura particolare della conservazione è più semplice – soprattutto in termini di spazio fisico – non si può negare che l’intensivo uso dell’energia per il funzionamento della necessaria tecnologia potrà creare dei problemi ambientali nel lungo periodo. Sebbene l’enorme volume di informazioni/dati digitali prodotti ogni giorno abbia reso queste condizioni “accettabili”, dalla natura stessa del supporto che lo esprime e lo contiene non bisogna nascondere le difficoltà, molte volte non considerate tali, che si presentano anche per il costante aggiornamento dei software, che cambiano formati e qualità di prestazione. Non mancano esempi di bad practice molto esemplificativi: nel passato sono andati perduti i dati sui contributi pensionistici di 20 milioni di giapponesi; e ancora sono andati persi i dati della missione su Marte del 1975 (un miliardo di dollari), poiché è stato impossibile decifrare i formati originali.
In questo contesto, si inserisce l’intelligenza artificiale (IA).
Attraverso tecnologie come il “machine learning”, il “natural language processing” (NLP) e la visione artificiale, l’IA è oggi in grado di analizzare una mole gigantesca di documenti in pochi secondi, riconoscere schemi, tradurre lingue, classificare contenuti e perfino suggerire relazioni tra dati apparentemente scollegati. Questo è particolarmente utile nei contesti culturali e archivistici, dove la complessità e la varietà dei materiali spesso sfuggono a schemi predefiniti.
Basti pensare, ad esempio, alla digitalizzazione dei fondi storici. L’IA può facilitare il riconoscimento ottico dei caratteri (OCR) su manoscritti antichi, trascrivere e indicizzare testi, riconoscere entità come nomi di persone, luoghi o date, collegandole tra loro. In questo modo, archivi finora inaccessibili o poco esplorati diventano consultabili e fruibili anche da non specialisti, “democratizzando” l’accesso alla cultura.
Tuttavia, queste opportunità non sono prive di rischi. Gli algoritmi possono riflettere i bias presenti nei dati storici o culturali, escludendo narrazioni marginali o rafforzando interpretazioni dominanti. Inoltre, la progressiva delega decisionale alle macchine – ad esempio, nella selezione dei documenti ritenuti “rilevanti” – pone interrogativi sulla neutralità, la trasparenza e la responsabilità nel trattamento del patrimonio culturale.
È dunque fondamentale che l’uso dell’IA negli archivi e nei contesti culturali sia guidato da una governance attenta e da una collaborazione interdisciplinare tra diverse competenze, come informatici, archivisti, storici, giuristi, e filosofi. L’archivio del futuro non dovrà essere soltanto uno spazio fisico o un database digitale, ma un ecosistema complesso in cui l’intelligenza umana e quella artificiale dialogano per costruire conoscenza.