Congresso nazionale UIL 27/31 ottobre 1969
UN SINDACATO FORTE PER UNA SOCIETÀ GIUSTA
La relazione congressuale del segretario generale Viglianesi a Chianciano.
Analisi della parte economica
Negli anni Sessanta l’Italia subiva una modificazione profonda negli assetti politici e sociali.
Vivendo un periodo così travagliato, il sindacato, soprattutto dopo il ’68, fu costretto a prendere in considerazione le opzioni di riforma, anzi di autoriforma che il movimento operaio cominciava insistentemente a chiedere con insistenza.
Le strategie e le scelte di politica economica furono imposte dalle necessità dettate dalla grande massa di operai che avevano spezzato il legame di fedeltà con un tipo di politica per lanciarsi nel caos collettivistico, in ogni caso, creativo. La nascita del movimento partiva da alcuni fatti e aveva preso una piega diversa per le straordinarie situazioni che il Paese viveva.
Infatti, se negli Stati Uniti la protesta partiva dai campus universitari per approdare nelle città, seguendo l’onda di protesta contro la guerra in Vietnam e il “sogno” di avere diritti civili per un’integrazione razziale, ancora lontana nei fatti, in Europa questa spinta si traduceva nello svecchiamento delle strutture amministrative ed istituzionali, distruggendo vecchi valori.
Politicamente parlando si affacciava una nuova sinistra, maggiormente orientata all’esperienza politica cinese, influenzando di fatto il desiderio di partecipazione attiva dei giovani con l’obbiettivo di costruire una nuova società migliore.
Inoltre, la spinta economica aveva portato grandi masse di emigranti dal sud al nord dell’Italia e questa condizione aveva prodotto un forte disagio all’interno delle varie comunità locali, provocando, nella novità dell’integrazione, rapporti di forza che si manifestavano, sia nei quartieri cittadini, sia all’interno delle fabbriche.
La fine della spinta economica produsse l’inasprimento di queste situazioni, portando questa platea alla formazione di una massa di operai che chiedeva considerazione e attenzione, oltre a reclamare risposte politiche e sindacali per rappresentare le giuste necessità.
Questo fenomeno di democrazia dal basso era inaspettato ed irruente, poiché non aveva precedenti. Infatti, mentre la politica affannosamente cercava di dare risposte senza riuscirci, il sindacato cercava di trovare risposte concrete alla voglia di partecipazione democratica e di riforme non più rimandabili.
Questa visione della politica sindacale dettata dai nuovi rapporti di forza che l’unità sindacale aveva cominciato a dettare portava contemporaneamente le strutture interne della rappresentanza sindacale a riorganizzarsi e a disegnare nuove relazioni industriali.
Le Commissioni interne erano con il tempo diventate sempre meno rappresentative, in quanto le scissioni sindacali avevano portato ad una contrapposizione – a volte anche estremamente aspra – delle parti sindacali; questa stagione, politicamente effervescente, portava a riscoprire i motivi dell’unità e della crescita democratica.
Se dunque l’aspetto politico e sociale in quel periodo aveva una rilevanza importante, d’altra parte l’economia del Paese continuava a presentare ancora quegli aspetti di crisi che sembravano essere stati spazzati via nel decennio precedente.
Complici di questo stato di cose furono le vecchie strutture economiche comprendenti i monopoli, gli scarsi investimenti, le forme di capitalismo familistico, un capitalismo prudente e più attento ad esportare che ad investire per l’Italia stessa, la politica economica senza una strategia e l’annoso problema della mancanza di materie prime che condizionava e condizionerà sempre l’economia italiana.
In risposta a questa generale situazione la UIL in quel decennio consolidò una robusta corrente di pensiero e di azione incline a forme di pianificazione dell’economia.
Due le parole d’ordine: riforme e programmazione. Indicazioni che la UIL assunse in pieno e che divennero sostanza della strategia sindacale.
Gli aspetti produttivi stavano cambiando la loro fisionomia. Le grandi imprese avevano continuato a guadagnare, nonostante il rallentamento dell’economia, e cominciava – sviluppandosi in realtà agli inizi degli anni Settanta – la trasformazione del lavoro a cottimo, voce importante nei contratti. I sindacati in quella stagione di rinnovi contrattuali erano riusciti a ridurne il peso.
In quel periodo la novità assoluta diventa il laboratorio casalingo e la trasformazione dell’operaio-manodopera in piccolo imprenditore artigiano. Si trasforma il rapporto di lavoro in rapporto commerciale con la casa produttrice, compreso di lavoro nero, in ogni caso lontanissimo da ogni diritto e fatto di massacranti orari di lavoro per rispettare le consegne.
A fronte di questo inizio di cambiamento le grandi imprese storiche italiane, avendo accumulato grandi profitti nel periodo precedente, riuscivano a superare i grandi scioperi o le sospensioni del lavoro riducendo gli investimenti, ad amministrare i turni usando la cassa integrazione e, infine, a licenziare facendo calare la produzione, con una particolare aggravante di esportare i capitali all’estero provocando un deficit nella bilancia dei pagamenti e nel bilancio dello Stato.
Fra il 1968 e il 1969 in seguito all’aumento dei tassi internazionali, l’esportazione di capitali – clandestini o meno – aumenta provocando quasi un deflusso. La politica monetaria diviene meno espansiva nel 1969, preoccupata per lo squilibrio che si va profilando.
La politica economica era ferma a strategie vecchie e immobilizzate da interessi troppo grandi per essere cambiate.
Quando si cambiò rotta con misure congiunturali, strette creditizie e misure fiscali per colpire i consumi, l’unico strumento che si riuscì a immaginare fu il controllo dei prezzi, strumento presto aggirato dalle stesse imprese produttrici.
Questa situazione che avrebbe dovuto sistemare le finanze italiane produsse nuova inflazione e uno sviluppo della speculazione dettata dalla nuova disponibilità economica nelle tasche degli italiani.
Infatti, se il credito al consumo era stato contrastato e i beni durevoli avevano stabilmente preso, per la maggior parte, la via dell’estero, la quota di spesa che era comunque destinata ai beni di consumo alimentava una rincorsa alla produzione di nuovi beni, esclusi dal listino ministeriale depositato e bloccato, tale che formavano nuovi prezzi – più alti – e al tempo stesso una spinta al consumismo che prenderà forme sempre più invadenti.
Ovviamente questa rincorsa produsse alta inflazione che riassorbì i miglioramenti salariali ottenuti dai rinnovi contrattuali. Le vicende monetarie furono dettate dalla Banca d’Italia nella seconda metà degli anni Sessanta.
Gli obiettivi macroeconomici finali di quella politica venivano evidenziati dall’allora governatore Carli e dall’economista Modigliani.
Questo aspetto delle vicende economiche è chiarissimo al gruppo dirigente della UIL, tanto che la relazione del Segretario generale al congresso “Un sindacato moderno, legato agli impegni di classe, nella prospettiva unitaria, per costruire la società civile, come risposta alternativa alla gestione neocapitalistica dell’economia” riportava compiutamente il quadro appena illustrato.
La relazione era molto articolata e complessa. Infatti, era chiamata a rispondere ad una stagione impegnativa ed estremamente caotica, sia da un punto di vista sindacale, sia da un punto di vista politico e sociale.
Era la stagione della contestazione e della crescita democratica “dal basso” delle istanze che sembravano voler disegnare una nuova Italia.
In questo la UIL ed il sindacato intero non volevano rimanere semplici spettatori, ma esisteva l’esigenza di legare quanto stava accadendo ad un disegno di riforme e di conquiste sociali ed economiche importanti.
Viglianesi sottolineava “Noi consegniamo al nostro Paese, alla classe operaia italiana, alla prospettiva europea, il frutto di questo nostro comportamento: assorbire e rilanciare le grandi tensioni sociali e la contestazione delle fabbriche e della scuola, portando avanti le lotte dei lavoratori con spirito e forme unitarie, senza con questo contrastare e ritardare il cammino dello sviluppo economico”.
L’analisi economica partiva dalla condizione operaia del nostro Paese. Essendo stato il sindacato il soggetto che aveva accettato la responsabilità della sfida per la crescita economica, adesso si presentava il momento di valutare lo stato dell’economia e cominciare a ragionare, affinché si potesse recuperare quegli aumenti retributivi che finora erano mancati.
Il sacrificio di milioni di cittadini il cui tenore di vita era stato contenuto, quando non represso, e l’altissimo livello di competitività del nostro apparato produttivo nascevano anche dalla responsabilità di cui si erano caricati i sindacati.
Il risultato era che l’Italia poteva essere considerata nei primi posti nella scala mondiale dei paesi industrializzati, la lira era stabile e il reddito nazionale aumentava in misura superiore al livello previsto.
Infatti, questo cresceva del 7%, mentre i salari non riuscivano a soddisfare gli elementari bisogni civili dei lavoratori, ossia la casa, la scuola, l’assistenza sanitaria.
I salari accusati di essere molto alti, in realtà, fra i paesi della CEE, erano i più bassi – in termini di produttività e in termini di occupazione – nonostante le retribuzioni fossero aumentate negli ultimi rinnovi contrattuali.
Gli aumenti registrati, comunque, non tenevano il passo al costo della vita. Gli aumenti retributivi, giustamente richiesti ed ottenuti, innescavano un processo di rialzo dei prezzi con cifre maggiori, rispetto alle retribuzioni medie.
In questo quadro di spinte inflazionistiche gli aumenti dei prezzi avrebbero dovuto essere contenuti nell’ambito di una variazione equa dei costi, invece così non fu.
“Dinanzi a questo stato di cose il discorso sul cosiddetto grado di compatibilità con il sistema economico delle rivendicazioni operaie non soltanto non può essere da noi assecondato, ma deve essere completamente capovolto.
Non accettiamo, perché inesatta e provocatrice, un’impostazione che unilateralmente consideri il salario, e cioè il lavoro, come unico elemento variabile, collocando tutti gli altri elementi, e in primo luogo il profitto, in posizione rigida ed immutabile. Abbiamo sempre sostenuto l’assurdità di impostare il problema della «compatibilità del sistema» come se quella dei salari fosse l’unica variabile economica manovrabile […]. La risposta alle tensioni salariali non può essere quella falsamente neutrale affidata alla sola politica monetaria. Il nuovo ciclo di sviluppo iniziato dopo la crisi del ’62-’64 ci ha posto di fronte ad una situazione nella quale l’Italia ha assunto caratteristiche di un’economia avanzata, pur senza eliminare gli squilibri strutturali di fondo tipici di un’economia sottosviluppata. Siamo ancora in un’economia dualistica che è afflitta, però, non solo dai vecchi mali, ma dalle nuove tensioni e dai nuovi pericoli di un’economia matura”.
Nella relazione Viglianesi sottolineava inoltre, come i nodi strutturali, e le susseguenti distorsioni come anche i ritardi della politica, che indebolivano lo sviluppo fossero la mancata piena occupazione ed il Mezzogiorno.
“È necessario invece dare alla politica anticiclica un carattere selettivo aggredendo le strozzature e le tensioni particolari con misure speciali; legare strettamente la politica di breve periodo (intesa a regolare il flusso dello sviluppo) con la politica di programmazione (volta a modificare e orientare la direzione dello sviluppo). Questo indirizzo risponde ad una precisa volontà politica: consentire ai lavoratori in lotta una vittoria reale impegnandosi ad evitare che la lievitazione dei prezzi o la restrizione monetaria rendano vani i successi del movimento sindacale. […] Oggi si minaccia una politica inflazionistica nell’immediato e una politica di svalutazione monetaria in un prossimo avvenire, per annullare i miglioramenti contrattuali attraverso il calo dell’occupazione e il rincaro dei prezzi.”
Le scelte per lo sviluppo erano dettate da Confindustria e Banca d’Italia con un mantenimento del dislivello tra nord e sud, con una politica deflazionistica, con la restrizione del credito, con un equilibrio economico anomalo e precario, fondato sulla concentrazione e sull’esportazione.
La stessa decongestione del cumulo di risorse non utilizzate all’interno si era ottenuta per la via dell’esodo di capitali – con strumenti e complicità diffuse – mentre l’emigrazione completava il quadro delle distorsioni che l’economia, così come impostata, subiva.
Due traguardi il sindacato era riuscito a raggiungere nella sua azione riformista e riformatrice: la riforma della legislazione sociale e previdenziale e l’abbattimento delle gabbie salariali, senza, ovviamente, perdere di vista la prospettiva generale.
Due azioni fondamentali per le richieste di nuovi assetti economici per l’Italia, comportando un innalzamento delle capacità di spesa e il definitivo affrancamento da vecchie logiche economiche per la dignità del lavoro e dei lavoratori.
In questa situazione la UIL, forte della consapevolezza che i tempi erano maturi, metteva al centro della vita economica del Paese la forza della contrattualità, fatta di attenzione al territorio e delle specificità aziendali, e la riforma fiscale che, attesa da tempo, ancora non aveva trovato la classe politica pronta per affrontare l’argomento.
La forza era dettata dalla richiesta di cambiare gli assetti economici che i lavoratori chiedevano e pretendevano.
Da lì si cambiava l’Italia, da lì partiva la sfida riformista che chiedevano i lavoratori. La contrattazione che la UIL portava avanti metteva in discussione comportamenti e politiche delle autorità monetarie, finanziarie ed economiche che furono costrette, dinanzi alle fenomenali lotte sindacali, a verificare e confrontare il sistema alle esigenze popolari.
Per adeguare il Paese alle nuove condizioni e rivendicazioni era necessario costringere la politica e il sistema economico a nuove progettualità, per questo il movimento sindacale si apprestava a condurre le lotte per la riforma della casa, per la riforma della sanità, per la riforma della scuola, per la piena occupazione e per il Mezzogiorno, operando non soltanto al servizio degli interessi della classe lavoratrice, ma anche ponendosi come elemento dinamico per l’intera economia nazionale.
Paolo Saija