Come per tutti i martiri civili e politici – nonostante il tempo che passa – siamo tristi quando la violenza strappa alla vita persone e protagonisti che avrebbero potuto dare al proprio Paese un grande contributo per il suo progressivo miglioramento sociale e civile. Come del resto è naturale indignarsi quando la violenza sopraffà il diritto e la giustizia. Ovvero quando alla elementare dialettica si interpone il pensiero assoluto, quando il giusto è soverchiato dall’ingiusto. Nei tempi particolari risuona ancora più tragico il silenzio della maggioranza che non vuole vedere il male.
Per Matteotti l’attività politica fu, dalle prime esperienze in Emilia-Romagna e in Veneto al Parlamento, dedicata ai problemi delle persone, dei lavoratori del Polesine, dei braccianti del delta del Po, in condizioni di povertà estrema. Fu l’organizzatore sindacale che fece ottenere alle leghe il riconoscimento come rappresentanza sindacale del bracciantato per il collocamento dei lavoratori, tanto da essere eletto nel dicembre 1920, a Ferrara, segretario della Camera del lavoro. Un riconoscimento dovuto, poiché il mondo del lavoro capiva il valore del riformismo e delle conquiste progressive, confermata dal fatto che la maggioranza degli operai italiani era iscritta alla Confederazione generale del lavoro che era guidata dei socialisti riformisti.
Matteotti fu il più rapido a capire il fascismo e lo squadrismo, data soprattutto la sua esperienza brutale in Polesine con lo squadrismo agrario. Era convinto della forza della denuncia e della centralità del ruolo del Parlamento. Pensava che senza una politica di ampie alleanze non si sarebbe potuto sconfiggere il fascismo. Dopo l’ottobre 1922 nella lotta contro il fascismo bisognava difendere la democrazia e i meriti, Matteotti, li conquistò nella stringente critica, nell’assillante richiesta di chiarimenti, nel marcare stretto l’avversario su tutti i temi.
L’azione politica di Matteotti fu coerente e per questo sapeva quale prezzo avrebbe potuto pagare. La sua lotta al fascismo in nome della libertà e della democrazia aveva segnato la sua attività, avendo capito fino in fondo, già nella famosa Inchiesta socialista sulle gesta dei fascisti in Italia e poi in Un anno di dominazione fascista, il volto truce della violenza, mettendo la propria azione politica al servizio della lucida denuncia, puntigliosa e coraggiosa; «l’oppositore più intelligente e irriducibile» del nascente regime lo definì Gobetti. Accanto a ciò, Matteotti fece anche l’analisi precisa della situazione economica e finanziaria, dello stato dei conti pubblici, della bilancia commerciale e del disavanzo, delle entrate tributarie, dell’evoluzione dei profitti e dei salari, dell’occupazione e dell’emigrazione.
Eletto nelle file del Partito socialista e poi – a seguito dell’espulsione del gruppo dei riformisti turatiani – segretario nazionale del Partito socialista unitario (fondato insieme a Filippo Turati, Giuseppe Emanuele Modigliani e Claudio Treves nel 1922) era distante da ogni massimalismo, convinto della necessità di dare voce e rappresentanza ai ceti marginali, ma significativamente numerosi. Giacomo Matteotti era un riformista che credeva in un graduale e progressivo allargamento dell’accesso alla platea dei diritti, che non venivano equamente distribuiti. La politica era il momento anche della rappresentanza sociale e su questo fronte era inflessibile. Con un carattere battagliero era pragmatico circa la risoluzione dei problemi, quanto intransigente, persino radicale, dal punto di vista etico e ideale, con una convergenza tra politica e morale che per lui era imprescindibile. Era il vero nemico del fascismo.
Di fronte a tale chiarezza di intenti e di capacità politica, il senso dell’opera di Matteotti non poteva restare privo di seguito. Il fascismo e la sua sconfitta, l’istaurazione della democrazia partecipativa e delle libertà democratiche sono stati gli ultimi obiettivi che si era posto e che furono conquistati dal nostro Paese.
Tuttavia, l’azione politica riformista, indipendentemente dall’omicidio fascista, è ciò che maggiormente interessa e deve essere messo in risalto. È da lì che il valore delle idee prendono corpo in organizzazioni e con dirigenti che passo passo raccolgono la sfida ad essere testimoni e protagonisti di una storia politica. Rileggendo le vicende di quegli anni, lo scontro all’interno della sinistra era fortissimo e le contrapposizioni quasi bellicose.
Per il gruppo dei socialisti turatiani la revisione della dottrina stava diventando una necessità. Il graduale processo di emancipazione generale, e degli strati più poveri ed ignoranti della società italiana di inizio secolo, era il risultato della incredibile ascesa del partito socialista e delle libere organizzazioni operaie. D’altra parte, i riformisti continuavano a lottare per la conquista legale, graduale, dei diritti sociali, politici e del lavoro, rifiutando il tema del collaborazionismo generalizzato, perché pericoloso in quanto sarebbe potuto diventare sistemico e di metodo.
Per trovare una via alternativa, e maggiormente incidente e coinvolgente rispetto al massimalismo rivoluzionario, Matteotti sperò che Turati prendesse posizione. Il retroterra ideologico era classista, ma le scelte conducevano verso istituti fondamentalmente democratici; infatti, laddove si può leggere la difesa dell’interesse di classe si può intendere l’interesse generale e il benessere collettivo.
Il Partito socialista unitario ebbe vita breve, poiché nel 1925 fu sciolto, come anche tutte le libertà civili e politiche furono soppresse.
Quando nel dopo guerra la vita politica cominciò di nuovo a organizzarsi, il partito venne rifondato. E nel ricordo dell’opera di Matteotti e della sinistra riformista molti dirigenti della Uil si iscrissero a questo partito. Viglianesi ne fu uno dei Vicesegretari.
Erano cambiati i tempi, il fascismo e la guerra avevano mutato il Paese.
Tuttavia, l’ispirazione, le radici, i richiami ideali a Matteotti e alla sua azione sono restati come un impegno perenne, generazione dopo generazione, nell’iniziativa e nella proposta della Uil. Colui che si può considerare il primo antifascista che nelle istituzioni – e attraverso di esse – e con gli strumenti che la legge consentiva ha combattuto per il diritto, la legalità e gli ideali socialisti ha tracciato una via.
Il suo riformismo è stato uno sprone per la crescita del dialogo e del confronto e per la Uil continua ad essere uno dei valori inconfondibili delle proprie radici.