“Socialismo: l’eredità difficile”, di Gino Giugni, Il Mulino, Bologna, 1996

Nell’ultimo biennio non sono mancate occasioni per ricordare la figura di Gino Giugni. Se il 2019 è stato il decennale della morte del giurista, nel 2020 cade l’anniversario del varo dello Statuto dei lavoratori. Sono, infatti, cinquant’anni che grazie alla volontà politica del ministro socialista Giacomo Brodolini, la Costituzione è entrata nelle fabbriche. Di quella legge n. 300 del 1970, Gino Giugni, anch’egli socialista riformista, ne è stato l’ideatore ed estensore materiale. I ricordi, i dibattiti e le discussioni sul tema hanno avuto, e continuano ad avere in questo periodo, una curvatura di carattere giuslavoristico, con riferimento particolare alle relazioni industriali, di cui Giugni fu un vero e proprio caposcuola.

Con ciò non si vuole qui dire che l’aspetto della sua formazione e provenienza politica non venga rilevato, però abbiamo ritenuto utile in questa sede riprendere un piccolo pamphlet, scritto da Giugni nel 1996, ed intitolato “Socialismo: l’eredità difficile”. Un testo di natura eminentemente politica, espressione della capacità dell’autore di maneggiare con competenza anche la storia, la sociologia e l’economia. Quella interdisciplinarietà di cui era capace, e che è stata fondamentale non solo per l’originalità del suo lavoro, ma anche per la solidità delle basi teoriche su cui si fonda, rendendone attuale ancora l’interesse per la discussione. Ne viene fuori per il lettore, oltre ad una articolata riflessione storica e politica sul socialismo, anche una definizione precisa dell’identità politica di Giugni stesso. Un’identità totalmente riformista, che egli rivendicava anche quando dirsi riformisti non era così semplice persino nel socialismo italiano. Come ebbe a dire lui stesso[1] “per quanto candido adolescente, non mi sentivo per nulla affascinato dall’ipotesi di una nuova rivoluzione, a guerra civile appena terminata, anche se diretta a istaurare il socialismo.

Ero già riformista senza saperlo: ne acquistai coscienza quando, nell’autunno 1945, uscì il primo numero della nuova serie di Critica Sociale, la gloriosa testata di Turati e Treves. Ma era una lettura solitaria […]. In uno dei tanti congressi socialisti trovai esposto il volume Storia del movimento operaio di Rinaldo Rigola. Questo libro è più che altro una bella autobiografia e lo considero ancora il miglior documento sulla storia del movimento operaio italiano […]. Esso conteneva un lungo capitolo dedicato al problema dello sciopero e al suo trattamento giuridico. Leggendo questo capitolo mi venne improvvisa l’idea di cambiare argomento della tesi di laurea […]. Senza questa svolta improvvisa mi sarei incamminato su un’altra strada”. Il professore all’università di Genova con cui discusse la tesi era un altro socialista riformista: Giuliano Vassalli. Forse, aveva ragione Edoardo Ghera, quando scrisse che “il diritto del lavoro, di cui è stato in giovane età riconosciuto maestro, occupa solo una parte della biografia intellettuale di Gino Giugni. Il suo profilo di studioso è piuttosto quello dello scienziato sociale e del politico socialista e riformista”.

Nel testo c’è tanta attualità rispetto alle vicende politiche dell’epoca. Nodi sicuramente non risolti, e forse non più risolvibili, come il problema dell’identità dei post-comunisti italiani. E troviamo una disamina di quella che è stata la comunità politica di Giugni: quel Partito socialista di cui si tracciano, con grande precisone, poche ma efficaci pagine rispetto ai suoi meriti, senza sottacerne i limiti di partenza, agli errori perduranti per buona parte del Dopoguerra, nonché le storture che hanno contribuito alla sua scomparsa, proprio quando la storia ne aveva decretato la vittoria politica ed ideale.

Alla metà degli anni Novanta, i partiti socialisti godono in Europa ancora di buona salute, mantenendo una vitalità forse anche inaspettata. Ma, secondo Giugni, visti anche i profondi cambiamenti che hanno segnato sia l’ideologia che la prassi dei socialisti, è lecito chiedersi se “abbia ancora un senso l’identità politica socialista”. Il Muro di Berlino era ormai caduto, e sotto le sue macerie non c’erano solo i fallimenti e le tragedie comuniste, ma rischiava di rimanere incagliata anche l’idea stessa di socialismo democratico. Cosa che, ci sentiamo di dire, forse è in parte accaduto.

Giugni inizia la dissertazione con alcune domande: Il socialismo fu utopia o realizzazione? La massa di credenti, ben cinque o sei generazioni, hanno agito, sperato, sofferto a vuoto o più semplicemente sono ancora nella condizione originaria dell’attesa? […] Fu davvero e solo utopia salvifica?”.

Certo, utopia e folklore hanno generato, con il loro incontro, “un movimento di emancipazione sociale che non aveva e non ha pari nella storia dell’umanità”. E comunque, rispetto ad un sol dell’avvenire che ritardava sempre la sua alba, il Quarto Stato il suo cammino ha cominciato a farlo sul serio. All’inizio il progetto era quello di cambiare sistema, pur se la “versione rivoluzionaria, nella sua fase di maturità, si mutò in una dottrina del potere”. L’intento era di forgiare in modo definitivo la struttura sociale. Era, questa, la pretesa di dominare la storia.

“L’opzione riformista” ne era solo una variante di metodo: pacifica, legalitaria, gradualista. Rimaneva incombente sempre il fine ultimo, pur se nella prassi esso, sempre di più, curvò verso un “modello pragmatico”. Il disegno di una società nuova sbiadiva sempre di più, lasciando spazio a obbiettivi ispirati a “contenuti incrementali”. Al suo interno troviamo la versione fabiana, caratterizzata da una dura e penetrante critica del sistema capitalistico, ma non fondata sull’ideologia marxista, insieme al “riformismo nella veste sociale, che si concentrò sulla legislazione operaia”. È questa tendenza che in effetti ha caratterizzato il secolo socialdemocratico, con la costruzione dello Stato sociale. Alla cui edificazione partecipano da protagonisti anche culture estranee al socialismo; basti pensare al New Deal negli Usa ed “allo spostamento che avviene nella cultura anglosassone della dottrina liberale, dalla mistica del mercato ad una sagace critica dello stesso”.

La variante del socialismo di mercato, caratterizzante la fine del XX secolo, sveste ogni velleità di nazionalizzazione dei mezzi di produzione. Anzi, par sovente muoversi in direzione opposta, di “restituzione al mercato di ciò che gli compete”. Il socialismo democratico sostanzialmente subisce delle importanti ibridazioni culturali, a cui corrisponderanno l’affermarsi di denominazioni sincretiche come “socialismo liberale” e “liberalsocialismo”. E si avrà la trasformazione dei partiti socialisti e socialdemocratici in veri e propri “crocevia culturali”, con la sempre più convinta accettazione del capitalismo, se non proprio nel lessico, di certo totalmente nella pratica.

Se a questo punto rimane ancora lecito chiedersi se sia scomparsa la ragion d’essere del socialismo politico, l’autore ci accompagna attraverso tematiche che ne fanno ancora risaltare l’importanza, sia storica, che attuale: è infatti nell’allargamento della democrazia che il socialismo politico ha riscosso uno straordinario successo. Giugni, afferma:” Il socialismo ha voluto significare anche sviluppo della democrazia […]. La democrazia socialista avrebbe dovuto evolversi nel senso di democrazia diffusa, o di democrazia sociale, che si affianca e rigenera quella politica […]. La democrazia di massa (però ndr), quando ha trovato espressione in fenomeni di tipo partecipativo, dimostrativo, assembleare, si è conclusa in verità con un netto bilancio passivo: dal sovietismo, via via fino all’assemblearismo degli anni Settanta, se vogliamo, passando attraverso le forme falsamente partecipative della rivoluzione culturale cinese, essa ha manifestato un’estrema velocità di degenerazione verso forme oligarchiche e manipolate”.

Rimane però il fondamentale allargamento della democrazia dovuto all’introduzione del suffragio universale, avvenuto anche grazie all’articolazione della rete sociale di cui il movimento operaio è stato protagonista. Basti pensare, secondo l’autore, all’importanza del sindacato, che con il suo impetuoso sviluppo “è stato in gran parte elemento costitutivo, e di volta in volta fattore di propulsione e di consolidamento dell’esperienza socialista […] con la sua comprovata capacità di modificare le condizioni di esistenza in modo incrementale ma ben misurabile, ad apparire come una delle principali, forse la principale, forza motrice, quella che imprime alla leva il necessario impulso”. Se non c’è stata la democrazia di massa, per eterogenesi dei fini, abbiamo avuto comunque quella “diffusa, istituzionale, partecipativa”. Diverso è il discorso riguardo alla “democrazia economica”, risultata una chimera con esito fallimentare, anche rispetto all’esperienza cooperativa italiana, rivelatasi più che una alternativa alla proprietà capitalistica, una “proprietà capitalistica diffusa”. Rimangono solo come forti suggestioni l’esperienza autgestionaria jugoslava, nonché scritto esclusivamente sulla carta il tentativo di elaborazione francese ispirato da Michel Rocard e ripreso con enfasi dal primo Mitterand.

L’evoluzione in senso liberalsocialista ha permesso una rivalutazione e riscoperta dell’individuo, ricollocato al “centro della tavola dei valori e degli obbiettivi”. Fondamentale ne è stata la rielaborazione del concetto di eguaglianza, tolto dalle polveri di un’epoca lontana in cui era sinonimo di egualitarismo, e valorizzata in termini nuovi, come eguaglianza delle “opportunità”. La nuova dimensione sociale determinatesi nel XX secolo, a cui la politica socialista e socialdemocratica ha dato forte e decisivo impulso, fa dire a Giugni che “non è ormai un azzardo affermare che la socialdemocrazia è l’erede storica del liberalismo, ovvero che è stata la riscoperta dei valori di principio del liberalismo a rigenerare profondamente la socialdemocrazia”. Il socialismo come fine ultimo non esiste più nella tradizione socialdemocratica, sostituito dall’idea di progresso come “processo per tentativi ed errori. […].

La «società aperta» aveva vinto la partita e Popper aveva sconfitto Marx”. Ed è il welfare il nuovo snodo di incontro e rielaborazione dei valori espressi dal secolo socialdemocratico. Una dottrina, quella del welfare, che ha subito negli anni dure aggressioni, sia dal neoliberismo di marca reganiana e thatcheriana, sia con la crisi finanziaria degli anni Settanta. In questo contesto la migliore revisione del welfare è stata quella di stampo svedese, con il passaggio dalla “concezione universalistica, che fu propria della realizzazione Beveridge, a quella del Welfare selettivo”. La socialdemocrazia avrebbe ancora una fondamentale funzione nella difesa e nello sviluppo del sistema di sicurezza sociale, pur se in un senso che l’autore definisce con: “sempre più Welfare e sempre meno Welfare state”. Esso è costruito sulla disponibilità dello strato più forte della società, che ne condivide i vantaggi con quello più debole, a patto di non modificare in peggio il suo standard di vita. Un sistema che serva come “guida per l’iniziativa degli individui e dei gruppi, ma non di liberare questi dalle proprie responsabilità”. Tutto, comunque, fuori da logiche sia di pauperismo, che di austerità.

Giugni sottolineava che nuovi problemi, a cui la formazione culturale del mondo socialista è impreparata, si affacciavano minacciosi. Uno di questi è l’inquinamento. Una cultura, come quella marxista, in cui “l’immagine del progresso è data dalla ciminiera e dalla rotativa” ha nei confronti della tutela ambientale certamente un gap, perché non era pronta a cogliere “il lato negativo del progresso, che scienza e tecnologia riusciranno comunque a sconfiggere”.

I partiti socialisti vedono cambiare anche i loro referenti sociali: dalla classe operaia, si passa ai “blocchi storici” (operai-cittadini-intellettuali), per arrivare sempre più ai “partiti piglia tutto” . A ciò contribuiscono “frontiere sempre più penetrabili tra lavoro dipendente e autonomo, insieme con la crescente diffusione di quest’ultimo”. Risiedeva in questa evidenza dell’epoca, secondo Giugni, “una delle tante smentite alla catastrofica profezia della proletarizzazione”. Ovviamente, questo argomento si presterebbe oggi a nuove discussioni, non riassumibili totalmente in ingessati, e non di rado retrospettivi, schemi marxiani, ma nemmeno valutabile definitivamente con gli occhi dei tempi in cui Giugni scrive. Pur se è lui stesso a sottolineare che con nuove innovazioni e processi “diviene arduo identificare e gettare le radici di una stratificazione sociale definita e realmente stabile”. Questo, se da un lato può creare una nuova e fluida classe nella quale potrebbero trovarsi l’antico capitano di industria e il lavoratore dipendente che collabora con lui in modo partecipativo e in un circuito innovativo, si profila il rischio della formazione di “una vasta classe degli addetti ai lavori di mera esecuzione”, con tutti i rischi conseguenti di “emarginazione, in una possibile prospettiva di secessione sociale”. È qui che si rinnova la missione socialista, forse la più complessa: la “difesa dei ceti deboli, dislocati in aree sociali emarginate o a rischio di emarginazione, e allo stesso tempo immedesimarsi nella domanda di promozione dello sviluppo che proviene dai soggetti che di questo sono propulsori […]. Farsi espressione della cultura degli investors liberandosi del peso dei levellers”.

La socialdemocrazia, insieme al mutamento della sua base di rappresentanza originaria, ha perso anche la caratteristica di “braccio politico dei sindacati”. Ed al suo interno non sono mancate in Europa forti differenze nazionali: dal modello a forte insediamento sociale, tipico della Germania e dei paesi scandinavi, a quello dell’Europa meridionale (Francia, Spagna, Grecia), caratterizzato da una cronica debolezza del movimento sindacale e, in parallelo, da partiti socialisti a prevalente caratteristica di opinione […] e una spiccata preminenza del leader rispetto alla struttura”.

Un capitolo del libro è dedicato alla parabola del socialismo italiano. Un socialismo che più di tutti nel mondo occidentale ha subito l’effetto di importanti contaminazioni. E che, però, come ebbe a dire Luciano Cafagna, già negli anni Trenta “disponeva potenzialmente di un nuovo, ricco, armamentario concettuale per una positiva progettualità liberalsocialista, messa a punto da menti liberali come Keynes e Beveridge. Ma non lo sapeva”. Infatti, il Psi aderì alla Terza Internazionale, riuscendo a svicolare dall’unificazione con i comunisti grazie alla resistenza di Pietro Nenni. Ma “ciò non impedì a quest’ultimo, dopo aver salvato il patrimonio della casa socialista, di rimetterlo sul mercato a partire dal 1934 con l’acquiescenza alla svolta tattica unitaria della Terza Internazionale e successivamente con le scelte frontiste e filosovietiche”.

Esperienza, quest’ultima, definita dall’autore un vero «olocausto ideologico», la cui ombra lunga per Giugni sostanzialmente arriva fino alla svolta del Midas, quando Craxi diventa segretario del Psi. Pur affrancato dall’abbraccio con il Pci in modo definitivo dopo i fatti di Ungheria del 1956, il partito non riuscì comunque ad elaborare presto alcun indirizzo innovativo, essendo ingabbiato in discussioni sulla “conquista del potere, sia pur con mezzi democratici, e non si negava ai grandi temi relativi all’introduzione di elementi di socialismo in opposizione al sistema capitalistico”. Assente la riflessione ideologica, se non quella tardo classista di Panzieri, o i richiami di Mondolfo al marxismo pre-leninista. Tale sottovalutazione degli aspetti legati alla cultura politica, fecero sì che il Psi si trovasse completamente sguarnito rispetto alla domanda teorica che venne dal Sessantotto. Tanto è vero, che ad aprire la strada al cambiamento, alla revisione, fu la rivista Mondoperaio negli anni Settanta, con la riscoperta di Proudhon per “suggerire come a un pensiero guida se ne sarebbe potuto sostituire un altro, e che comunque non ebbe più effetto di uno scoop giornalistico”.

Ovviamente, in questa vicenda c’è un Partito comunista che, secondo Giugni, presenta nella sua storia anche tratti di “contaminazioni da contatto con culture non comuniste”: in primis quella socialdemocratica., pur se il comunismo italiano nasce come partito della rivoluzione, rimanendo tale sia con Bordiga, che nel “lungo percorso togliattiano, quando si consolida lo sdoppiamento tra l’obbiettivo finale e il percorso quotidiano”. E pur se diventano più labili, nel tempo, questi tratti delle origini , tanto da portare al cambio di nome, dopo la caduta del Muro di Berlino, e con essa il fallimento certificato del comunismo, “il fatto curioso semmai è che il passo diviene esitante quando si tratta di affrontare il rapporto con le origini: da un lato viene esaltata l’appartenenza al socialismo europeo, ufficialmente testimoniata dall’ambita accettazione nelle assise del socialismo internazionale, ma dall’altro affiora la linea di tendenza a scavalcare di un balzo la socialdemocrazia e a cercare fonti generatrici di identità nelle sinistre democratiche di stampo non socialista (un)….salto della quaglia”. E pur se il principale concorrente dell’ormai Pds scopare travolto da Tangentopoli, rimane intatto il problema non risolto della identità dei post comunisti.

Intanto, il passaggio per i socialisti italiani da una subalternità culturale, ad un autonomismo senza la “base di una filosofia politica compatta”, fino ad arrivare ad un riformismo oltre che di fatto, anche di principio espresso chiaramente, è stato lungo e travagliato. Giugni osserva come a lungo il mito della rivoluzione nel Psi era certo affievolito, “ma senza che l’antitesi di esso, e cioè il riformismo, diventasse dottrina di maggioranza”. Infatti, storicamente, la prassi riformista ebbe come maggiore soggetto promotore il sindacato. La sua migliore cultura del riformismo, a giudizio dell’autore, visse fuori o ai margini del Psi, i “cui esponenti critici verso lo «pseudorivoluzionalismo verbale» ebbero anche il merito di individuare i limiti del riformismo sociale e municipale cui, sfuggiva l’enorme dimensione del problema del Mezzogiorno. Tra le migliori figure di questo filone politico Giugni annovera Salvemini, Rosselli, Dorso, Ernesto Rossi e Rossi Doria, che in fondo “finirono per operare fuori del Psi o furono ospiti occasionali in una casa che per essi non fu mai molto ospitale”.

A cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, anche simbolicamente rispetto al cambio di nome della corrente craxiana, che da «autonomista» si definirà «riformista», si assiste alla formazione di una rinnovata cultura del riformismo, il quale non ha più bisogno delle «riforme transizione» o delle «riforme movimento» per rendersi presentabile nella politica socialista, rispetto all’idea del capovolgimento di sistema. Vanno nel cassetto le «riforme progetto», per far posto ad un riformismo di marca «incrementale». La riforma varrà, d’ora in poi, in quanto tale, “con una coerente propaggine in una politica tesa alla governabilità e orientata perciò a privilegiare, tra gli altri, l’obbiettivo del rinnovamento dello Stato”.

È ancora una volta il sindacato il soggetto che più di tutti ha fatto sua l’idea delle «riforme movimento», in quanto proprio l’esperienza sindacale è un “punto di sutura tra teoria e prassi”. Pur se non di rado la stessa stipula di un accordo fosse ritenuta importante più per la mobilitazione che lo precede, rispetto alla sua conclusione. Un’idea che se da un lato ha il sapore del motto bersteniano del movimento come tutto, dall’altro è un modo “di concepire l’azione sindacale (che) corrisponde anche all’idea, propria del marxismo fin dalle origini, che il sindacalismo fosse null’altro che una fase, o di strumento di crescita, di mutazione politica: per essa la conquista delle otto ore è importante non tanto perché è preferibile per gli operai lavorare non più di otto ore, ma perché essi lottano per conquistarla”.

Giugni, però, ed a ragion veduta, ammonisce chiunque pensi che una vera politica riformista, come anche rivendicativa, possa essere slegata da una capacità adeguata di gestione del nuovo sistema che si viene a creare. Ed è per questo che dà un giudizio negativo sulla poco brillante prova della politica di riforme degli anni Settanta. Esempio ne fu la riforma sanitaria, “cui segue un indecente meccanismo applicativo”, tanto da screditare la riforma stessa.  Inoltre, il riformismo non può essere slegato da un sistema di valori saldo altrimenti il rischio di divenire uno strumento di scambio è alto., Non può essere apolitico, senza la possibilità di scivolare nella pura accademia.

La riflessione di Giugni si ferma alle vicende dell’allora Pds, ed alla constatazione che nel momento in cui pare possibile ed auspicabile una sua completa trasformazione in senso riformista, con il necessario corredo ideale, il passo si fa incerto, lento e, aggiungiamo, confuso. Una confusione di cui, evidentemente, a sinistra non terminata.


[1] G. Giugni, intervistato da Pietro Ichino, in Lavoro, Diritti, Europa n. 3/2019.