Nel groviglio degli anni Ottanta”, di Adolfo Scotto di Luzio, Einaudi, Torino, 2020

“Nascere troppo tardi, è l’espressione di un sentimento. Di chi viene dopo una grande frattura, di solito una rivoluzione. Tutto l’ambiente in cui cresce, le voci più autorevoli e prestigiose che ascolta, educano nella convinzione di aver perso qualcosa di molto importante, di aver mancato un appuntamento decisivo con la storia in atto”.

È con queste parole che inizia la ricostruzione storica degli anni Ottanta di Adolfo Scotto di Luzio. Una storia dove si parla di una generazione “ritardataria”, rispetto ai coetanei protagonisti del ’68 (“una generazione che manda tutto all’aria”), quanto dei turbolenti anni ’70 (“erano ai nostri occhi un blocco compatto e coerente, fatto di fervore e impegno”). Si narra “dell’epopea di un sentimento”, in cui lo storico lascia spazio anche all’autobiografia, per descrivere su più piani, un confronto tra epoche, ragazzi, lotte. L’autore, nato alla fine degli anni ’60, ci parla della sua generazione, in quella che fase dell’età che avrebbe dovuto corrispondere direttamente alle pulsioni “rivoluzionari”, ma che invece sarebbe rimasta segnata dal “rimpianto, dal rammarico, dall’invidia, insieme ad un tratto insicuro e incespicante di chi è stato educato a chiedere sempre permesso”.

Il racconto si snoda attraverso politica, sociologia, psicologia, teatro, libri, programmi televisivi, fumetti. Persino i giocattoli sono un modo per raccontare un’epoca, o forse sarebbe meglio dire, le varie epoche messe a confronto. Di queste, gli anni Ottanta sono inquadrati in alcuni tratti distintivi, come l’edonismo reganiano, l’individualismo acquisitivo, la frivolezza, pur conservando una “spiccata dimensione politica”, ma dove il politico non è più “domatore della belva capitalistica”. Un nuovo lessico caratterizza l’epoca: leadership, governance e governabilità sono termini a cui ormai siamo abituati, ma che si impongono in quegli anni, dove anche la reputazione della democrazia inizia una parabola discendente, mentre il nuovo liberalismo aggredisce le basi e gli istituti di quella socialdemocrazia, che l’autore definisce “socialismo a metà”.

Nel libro c’è il tentativo di indagare come, e se, le generazioni succedutesi stanno in rapporto l’una con l’altra. C’è la “scoperta” di essere andati alla ricerca di maestri, che “non avevano alcuna voglia di esserlo”. Questo, forse, è il tratto fondamentale del libro; il più grande cruccio dell’autore, che ha speso molta della sua gioventù (ma come lui tanti altri) a voler somigliare, anche fisicamente, al rivoluzionario. Ma è il rapporto tra passato e presente, che se pur descritto attraverso il diaframma del sentimento, è ad ogni modo utile per capire almeno un pezzo della gioventù di un’epoca.

Secondo di Luzio, uno dei temi su cui indagare è quello dell’eredità tra generazioni; la quale costituisce “il perno attorno al quale si organizzano quasi tutti i conflitti esistenziali del decennio in rivolta”. Un’eredità, nel caso dei ragazzi degli anni Ottanta, che non riguarda il rapporto “padri e figli”, ma quello tra fratelli maggiori e minori. Il dovere del fratello maggiore viene descritto come “il rovescio del diritto feudale del primogenito. Ma anche il rifiuto della pretesa a qualche privilegio culturale, per il sol fatto di essere venuti prima”. Sono gli ambiti istituzionali che modellano il legame tra generazioni: la scuola, prima di tutto. Ed è proprio intorno alla questione scolastica che prende forma la protesta degli anni Ottanta; di giovani che, a differenza dei loro coetanei dei decenni passati, i quali uscivano presto da casa, “ritornano ora dentro le mura domestiche”, in una nuova contesa dello spazio.

Nel Sessantotto si partiva dalla scuola e dalla fabbrica, per arrivare alla città, con i suoi quartieri popolari. La cultura degli anni Settanta, secondo l’autore, aveva con lo spazio dell’intimità domestica un rapporto problematico, dovuto allo stereotipo per il quale il proletariato fosse indifferente alle proprie condizioni abitative e che “in questa indifferenza stesse il vero tratto di separazione tra borghesia e operai”. Uscire di casa per i ragazzi degli anni Settanta era il proseguimento della medesima azione dei loro padri alla fine della guerra. Tutto questo avviene in un contesto educativo in cui la nuova pedagogia democratica affida alla famiglia la cura del figlio a patto che “la famiglia accetti di aprire le porte di casa al nuovo verbo educativo. Privatizzazione dell’infanzia e pubblicizzazione della famiglia sono due aspetti di un unico processo”.

Nei Settanta troviamo il punk italiano, Andrea Pazienza e i suoi disegni, Perché “la facilità dell’azione ben si accordava con un’atmosfera in cui disegnare, fare musica, era come andare a zonzo, muoversi e produrre senza che nulla volesse o dovesse nascere”. L’azione non era pensabile se non nelle forme dell’espressione di sé.

Il capitolo quinto è intitolato “Il ritorno dell’eroe”. Lo scenario sono ancora gli anni di Piombo, con “ragazzi con la pistola e quelli con la siringa”. Sono le immagini le protagoniste. La prima è la foto storica del ragazzo con passamontagna e pistola puntata, durante una manifestazione a Milano, il 14 maggio 1977. Per l’autore “tutte le azioni di strada di quel manipolo di giovani ribelli sul declinare degli anni Settanta, obbediscono a quello che già ai tempi della Rivoluzione francese veniva definito il cieco impulso degli entusiasti […]. La lotta armata si giustifica sulla base della rivoluzione ma la certezza che la rivoluzione sia in atto deriva dalla lotta armata”. Appare questa una spiegazione tautologica. Un “amen” che non prende mai in considerazione le basi ideologiche su cui si muove quel movimento. La seconda immagine è la foto di un morto per eroina agli sgoccioli degli anni Settanta. Aveva 16 anni, e per l’autore può essere paragonato a “uno di quei soldati stremati lasciati sul ciglio della strada da un esercito in rotta”. Era, questo, il segno della resa, della “ritirata”. “L’ideologia lascia il posto all’individuo eroinomane che ormai occupa tutto il centro della scena”. Il simbolo della fine di un’epoca; ed il Sessantotto appare, da quel 1979, remotissimo e “molto vicino ad un paesaggio di macerie e un dolce ricordo”.

Si andava verso la “fine dei modelli”, la “caduta dei miti”. Il passato diventa “merce culturale” e la questione giovanile, secondo l’autore, viene ridotta sul terreno della cultura, foriera di una “rapida depoliticizazione”. Inizia qui la descrizione piena degli anni Ottanta, definiti “vuoti e farseschi”, e che aprono una frattura insanabile con chi è venuto prima. In questo contesto, nessuna determinazione soggettiva a “fare la rivoluzione” è sufficiente, rispetto alla mancanza di legami generazionali attivi, di trasmissione culturale, di vincoli politico-organizzativi. Con una lotta di classe “che lascia progressivamente spazio ad una riformulazione del conflitto in termini di ciò che è giusto o sbagliato”. La lotta assumerebbe così solo uno sfondo moralistico. In termini sempre fortemente negativi, l’autore rivede in questa generazione la fatica ad elaborare i termini della propria coscienza. Si definirà per “quello che non c’è più e che ben presto diviene quello che non ha”. Il giovane è raffigurato con lo zaino in spalla per partire con il treno, che ascolta la musica con il walkman, ma la cui presenza politica era, comunque, ancora attiva. La lotta contro gli euromissili, per la Palestina e il Sudafrica di Mandela ne sarebbero alcuni esempi. Ma chi resta sulla scena politica? Secondo di Luzio di certo c’è “quella parte della generazione che ha ricevuto un’educazione politica e che è stata abituata a guardare al Sessantotto con rimpianto”. Ovvero, chi milita nel Pci, in Democrazia proletaria, nei collettivi studenteschi, con ancora una (idealizzata ndr) classe operaia buona a nutrire “lo spirito a contatto delle passioni partigiane”. L’avversario è sempre il capitalismo. Ma il contesto per i giovani sarà caratterizzato da un periodo dove si amplifica il divario tra cittadini ed istituzioni e la critica della sinistra non avendo “strumenti operativi di contestazione, si lascia facilmente surrogare dalla messa alla berlina di uomini, partiti, istituzioni, in una caduta verticale di prestigio”.

La lotta di questa generazione è dentro e per la scuola. Nel 1985, tornano in piazza a migliaia contro la legge finanziaria. La ministra della Pubblica istruzione Franca Falcucci, avrà con gli studenti un duro confronto. A commentare i fatti della Pantera, saranno spesso gli eredi del Sessantotto, e per la prima volta, afferma l’autore, “essere giovani e protestare non significa essere comunisti”. Si alza la polemica contro le strutture partitiche, iniziando a parlarsi di “società civile che si esprime in nome dei diritti e della Costituzione contro la politica e i partiti (che) fa qui risuonare le sue note e annuncia l’inizio di una marcia trionfale che nel giro dei decenni successivi saturerà, questa volta con voce appropriata, lo spazio pubblico italiano”.

Le occupazioni partono da Palermo, con il movimento della Pantera che “si staglia sullo sfondo dell’incipiente sfaldamento delle strutture politiche, in un montante clima di discredito, mentre aumenta il prestigio di giudici, investigatori e poliziotti. È il periodo della prima sindacatura di Leoluca Orlando: il 1985. Tra i suoi ispiratori c’è il gesuita padre Ennio Pintacuda, “singolare figura di religioso e di politico” il quale “stabilisce un rapporto decisivo con il giovane e ambizioso sindaco del capoluogo siciliano”. Pintacuda guarda con interesse all’esperienza leghista nascente al Nord, a suo dire “un movimento di rivolta verso le ingiustizie del regime e che reclama verità e giustizia”. L’antimafia diventa un mezzo di lotta politica: tutto è caratterizzato da una forte carica palingenetica, con un nemico preciso: il riformismo, mostruosità da “bandire (perché) completamente fuori dalla storia”.

Grazie alla nuova “dimensione egemonica americana”, gli studenti italiani stabiliranno con la propria cultura nazionale legami “fiacchi ed estremamente labili”. Dai college americani arriva uno stile di protesta “non conflittuale e soprattutto non violento”.  E la stessa partecipazione politica si esprimerebbe in un “vuoto di cultura politica e di ideologia, che rappresenta l’aspetto più significativo del degrado dei partiti repubblicani”. Il nemico giurato del movimento della Pantera sarà Bettino Craxi. L’anticapitalismo ne sarà ancora un tratto distintivo, almeno per “arginare l’invadenza del mercato in alcuni ambiti della vita sociale”.

Quella degli anni Ottanta, sarà la “prima generazione a dover fare i conti con la fine delle illusioni […] non ha né spinte iconoclaste ne bisogni restaurativi dinanzi al passato”. C’è l’assenza dei fratelli maggiori e “l’irripetibile Sessantotto invece di liberare quelli che sono venuti dopo li incatena per sempre alla loro inadeguatezza storica”.

Come sottolineato nelle prime pagine del testo, di Luzio scrive un libro di storia, dove l’autobiografia ha il suo peso. Il tema posto in termini di eredità tra generazioni è di per sé importante. Non diciamo nulla di nuovo quando affermiamo che chi non conosce il passato non può capire il presente e progettare il futuro. Ma per far questo l’eredità non basta, perché essa potrebbe essere definita solo in senso “quantitativo”, quindi come un bagaglio acritico di qualcosa che altri ti lasciano. Forse, sarebbe meglio parlare di memoria. Di un elaborato da intendersi più in senso “qualitativo”, in cui si analizza il passato criticamente, portandosi dietro ciò che serve, in termini evolutivi. Un’eredità non elaborata, e per giunta idealizzata, può schiacciare. Una memoria fatta di ricerca critica, può avere invece il compito di guidarci, anche se con molte fatiche intellettuali. È un po’, volendo usare una ellissi, la differenza tra “assolutismo” e “laicità” di approccio.

E nel testo troviamo dosi massicce del primo, che non può poi che essere foriero solo di delusione e disillusione davanti a miti e a modelli che inesorabilmente cadono sotto i colpi della storia, e a nostro giudizio, anche della ragione. Il giudizio sul “riformismo” è sempre duro e mai messo in dubbio. Eppure, quel “mezzo socialismo”, che per l’autore è la socialdemocrazia, ha creato le condizioni migliori di benessere che si ricordi. Non riconoscerne mai il valore è riproporre il solito fotomontaggio della storia, in cui si sono rispecchiati migliaia di giovani con la rivoluzione palingenetica nel cuore, e spesso la pistola in mano, immersi in una vocazione totalitaria che non ammette ripensamenti, perché al massimo l’idea che li spinge è stata solo mal realizzata, ma non era sbagliata. In tutto il testo sembrano riecheggiare posture sartriane, che per Aron, si scagliavano “contro il pratico-inerte (che) chiamava alla rivolta.

Con l’analisi del gruppo d’azione, trasfigurava la lotta, perché, in ultima analisi, le coscienze non escono dalla solitudine e non comunicano se non unendosi in favore della violenza. Nella rivoluzione stessa, e non nel dopo-la-rivoluzione, l’uomo si riconcilia con l’uomo”. Una delle peggiori tragedie della storia. Senza contare, che già alla fine degli anni ’60, un altro limite molto pericoloso veniva rilevato rispetto a personaggi come Marcuse e alle posizioni strategiche di certi movimenti di contestazione, “che consiste nella «globalità» del «gran rifiuto» opposto alla società industriale. Non sembra ingiusto sostenere quanto sostenuto da Jurgen Habermas: il «no globale» al posto di «una serie determinata di no» invece di rendere ostico il mondo a chi lo domina rischia di risolversi in una scettica ed impotente evasione da esso”[1].

Poi, ognuno ha i suoi eroi. E ci resta difficile annoverargli in tale categoria, solo per la solitudine romantica in cui avrebbero compiuto il folle gesto di impugnare una pistola puntata verso il mondo intero, o quello sconsiderato di uscirne per mezzo di una siringa. Comprendere i fenomeni, rimane un dovere per avere buona memoria. Ma è bene ricordare che dall’altra parte della canna fumante c’è stata gente come Walter Tobagi. “Perché sparare a Walter, un uomo dolce, obiettivo nel suo lavoro giornalistico, un cronista misurato e onesto come pochi?”, si domandava atterrito Giampiero Mughini. Gli assassini erano “figli di una sottocultura settaria e isterica, di un vero e proprio ingorgo mentale, i sei assassini respiravano l’atmosfera ideologica di una certa Milano, feltrinelliana e operaista, un terreno in cui il terrorismo attecchì come la sua pianta più naturale”[2]. Tobagi è per noi un eroe, perché ha scelto la libertà e il rispetto della vita umana. Eroe è certo Giovanni Falcone, che lo stesso Leoluca Orlando non esitò a criticare infondatamente, durante una puntata del programma televisivo Samarcanda, nel 1990, ed in cui accusò il magistrato di tenere


[1] S. MUNAFO’, “Marcuse, il marxismo e la “nuova sinistra”, in Mondo Operaio, n. 3/1969.

[2] G. MUGHINI, “La peste che uccise Walter”, in Mondoperaio n. $/1983.