Dopo la pubblicazione del discorso che Filippo Turati tenne al congresso di Livorno, teatro della scissione comunista con la conseguente nascita del Pci nel 1921, pubblichiamo un altro saggio, che nella vicenda del dibattito a sinistra tra Partito socialista e Partito comunista, rimane un vero e proprio classico. Stiamo parlando dell’articolo di Massimo L. Salvadori intitolato “Gramsci e il Pci: due concezioni dell’egemonia”, e apparso sul numero 11 di Mondoperaio del 1977. Gli anni Settanta, infatti, sono quelli contrassegnati dall’aspra polemica condotta dai socialisti nei confronti dei comunisti. Una vera e propria offensiva ideologica;” un confronto teorico nella sinistra sui problemi del socialismo”, che aveva anche la funzione di far recuperare al Psi una propria identità politico-culturale[1]. Come scrisse l’allora direttore della rivista, Federico Coen, già dalla metà degli anni Cinquanta “venne a maturazione, nell’ambito del Partito socialista […] la svolta che doveva portare al superamento della strategia frontista ed alla dissoluzione delle premesse teoriche che l’avevano sostenuta e alimentata”[2]. Non fu un percorso semplice, perché insieme alla ricerca dell’autonomia politica, era necessario ricostituire e riannodare quei fili che il Psi aveva perso rispetto alla parte fondamentale, e forse migliore, della sua storia: il socialismo di stampo riformista. Ogni tentativo di recupero di autonomia politica (che potesse essere anche il presupposto per migliori risultati elettorali), passava inevitabilmente attraverso un cammino di elaborazione e differenziazione culturale, rispetto all’egemonia che in questo campo era detenuta proprio dal Pci sull’intera sinistra italiana. E dopo uno scarso investimento culturale, che per il Psi non dipendeva solo dalla perpetua carenza di risorse finanziarie, ma dalla natura profondamente libertaria dei socialisti italiani, per i quali era inconcepibile che uomini e donne di libero pensiero si piegassero a una direzione politica della cultura[3], venne il momento di mettere in discussione la tesi centrale su cui il Pci aveva costruito negli anni la propria immagine: “la tesi cioè della continuità politico-culturale del partito, che non conosce mutamenti di indirizzo, ma solo adattamenti al mutare del contesto socio-politico in cui si muove”[4]. Si voleva portare lo scontro in terreno aperto, per discutere quanto i presupposti ideologici del comunismo italiano si rilevassero idonei o meno a sorreggere la nuova presunta linea del partito di stampo pluralista e democratico. Però, come sottolineato da Furio Diaz, “fuori della genericità e delle formule, come è possibile elucubrare riletture e revisioni dei testi marxiani per ritrovarsi più o meno concreti presupposti della via democratica al socialismo ora proposta dal Partito comunista italiano, lasciando del tutto da parte le posizioni teoriche e le vicende pratiche del movimento comunista sovietico, con la quale la prassi del nostro comunismo per tanto tempo e con tanta risoluta insistenza hanno proclamato uno stretto legame?”[5].  Ed ecco che insieme al dibattito inaugurato da Norberto Bobbio sul “Marxismo e lo Stato”[6], quello sul concetto di egemonia in Gramsci è un altro tassello importante in quella che fu una delle più avvincenti disfide politico-culturali che il nostro paese ricordi.

Gramsci è considerato il teorico dell’egemonia. Nella società classista, questa viene esercitata da una classe dominante attraverso due modalità: la prima, utilizzando apparati coercitivi verso gruppi antagonisti. La seconda si esercita sui gruppi sociali alleati o neutrali attraverso i cosiddetti «apparati egemonici» della società civile. “Una congiunzione di forza e di consenso, di dittatura e di egemonia è alla base di ogni stato, ma la proporzione tra i due elementi varia in ragione del grado di sviluppo della società civile, che in quanto sede dell’azione orientata ideologicamente è il locus di formazione e diffusione dell’egemonia, il centro nevralgico di ogni strategia politica. Laddove essa presenta una «struttura massiccia», come avviene nell’Occidente industrializzato e mobilitato dal capitalismo, il ruolo dell’azione egemonica, non solo nella gestione ma anche nella conquista e nella edificazione dello Stato, è cruciale e privilegiato rispetto a quello della forza, pur presente e necessario”[7].

Come scrive Salvadori nel suo saggio “l’opera di Gramsci e in specie i Quaderni sono considerati dai teorici e dagli ideologi comunisti come una tappa centrale, come il trait d’union fra leninismo e il post-leninismo […] (e) l’attenzione centrale dedicata alla teoria gramsciana della egemonia ha le proprie radici nella ricerca condotta dal Pci intorno a forme di una via al socialismo adeguata alla complessità dello sviluppo della società civile e dello Stato nei paesi a sviluppo industriale avanzato […]”. Salvadori pone a verifica se il punto di approdo del pensiero di Gramsci così come contenuto nei Quaderni, consenta o meno di considerare l’egemonia cosa diversa rispetto alla dittatura del proletariato o se essa rimane “sempre un modo per arricchire nelle sue articolazioni la teoria stessa della dittatura”. Egli riconosce che il Partito comunista italiano, in quel torno di tempo, portava avanti una teoria del potere socialista non riconducibile alla dittatura del proletariato, pur se formalmente le radici del partito erano radicate nella teoria gramsciana. Era di massima importanza, quindi, “fare i conti” con spregiudicatezza con le questioni teoriche, “così da “giungere a chiarire i presupposti teorici della pratica con piena consapevolezza”. Usando le parole di Luciano Pellicani, si stava “discutendo l’indiscutibile”[8], iniziando una controffensiva contro l’ideologia del Partito comunista, diventata oramai il “nuovo senso comune” che pochi avevano il coraggio di contestare apertamente. In tempi di politically correct, nonché di pressappochismo, una lezione da tener presente.

[1] F. COEN, nella Prefazione al Quaderno di Mondoperaio 7 del 1977, p. XV.

[2] F. COEN, Prefazione al Quaderno di Mondoperaio n. 2 del 1975, p. V.

[3] S. COLARIZI, Il laboratorio dell’innovazione, in Mondoperaio n. 12/2018.

[4] F. COEN, op. cit. 1977, p. XII.

[5] F. DIAZ, Alla ricerca dei presupposti della «scelta democratica» del Pci, in Mondoperaio n. 10 del 1976.

[6] Quaderno di Mondoperaio n. 4 del 1976,

[7] S. BELLIGNI, Egemonia, voce in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Dizionario di politica, UTET, Torino, 1983, p. 372.

[8] L. PELLICANI, Dove discutere l’indiscutibile, Mondoperaio n. 12/2018.

Gramsci e il PCI: Due concezioni dell’egemonia

Massimo L. Salvadori

  1. 11/ 1976

Nel suo significato originario il termine «egemonia» comprende due elementi: il comando da parte di chi l’esercita e il fatto che questo comando viene esercitato da chi lo detiene in vista dei seguenti scopi: 1) «guidare» degli alleati; 2) condurre insieme con essi un’azione di forza contro una parte o più parti avverse. Appare quindi che il concetto di egemonia, nella sua duplice articolazione, implica ricerca da un lato di consenso all’interno di un blocco di alleanza e dall’altro di dominio sugli avversari da ottenersi con la forza. Ci troviamo di fronte ad una combinazione di nessi che non sono scindibili. È a tutti noto che nella cultura politica italiana (e non solo italiana) contemporanea la discussione sulla egemonia e sulle sue implicazioni è legata all’opera di Antonio Gramsci, e particolarmente al significato dei suoi Quaderni del carcere. Tanto che si potrebbe sinteticamente affermare che oggi Gramsci appare soprattutto come il «teorico dell’egemonia». L’attenzione centrale dedicata alla teoria gramsciana della egemonia ha le proprie radici nella ricerca condotta dal PCI intorno alle forme di una via al socialismo adeguata alla complessità dello sviluppo della società civile e dello Stato nei paesi a sviluppo industriale avanzato, nella consapevolezza che il «modello» di socialismo rappresentato dai paesi socialisti di matrice bolscevico-staliniana non è più né praticabile né auspicabile. L’opera di Gramsci e in specie i Quaderni sono considerati dai teorici e dagli ideologi comunisti come una tappa centrale, come un trait d’union fra il leninismo e il post-leninismo. Le interpretazioni che potremmo dire correnti e con un segno più direttamente politico (quella di Luciano Gruppi è sotto questo profilo esemplare) tendono a suggerire una lettura secondo la quale Gramsci avrebbe compiuto una sorta di «rotazione» teorica, all’inizio della quale sarebbe stato all’interno del leninismo e della sua prospettiva e alla fine della stessa avrebbe aperto, proprio attraverso l’elaborazione compiuta della «teoria dell’egemonia», la strada alla strategia attuale del PCI, fondata sull’accettazione del «pluralismo», sulla democrazia politica, sul dialogo tra forze politiche diverse, sulla strategia delle riforme.

I punti della teorizzazione gramsciana contenuta nei Quaderni che vengono a questo scopo maggiormente utilizzati e «sensibilizzati» sono quelli che riguardano: 1) la necessità per una forza che intenda fondare uno Stato nuovo di essere «egemone» già prima di avere assunto il potere; 2) la necessità per il proletariato di legare a sé un «blocco» di forze storiche in grado di esprimere la complessità della società civile; 3) la necessità di assegnare un ruolo centrale al legame con gli intellettuali; 4) la necessità di condurre in «Occidente» una lotta che tenga conto adeguato delle differenze fra le forme della rivoluzione sociale in Russia e le forme di un processo rivoluzionario nei paesi borghesi sviluppati, insomma di tener conto delle «lezioni» derivanti dal fallimento della rivoluzione nell’Europa centro-occidentale nel primo dopoguerra.

UN PROBLEMA POLITICO

Che una forza politica con il peso del PCI tenda ad utilizzare la propria «tradizione» teorica e prima di tutto quanto di essa è legata alla figura del suo massimo pensatore, è fatto non soltanto naturale, ma doveroso. Senonché, constatato questo, a me sembra che si debba portare il discorso sul piano più proficuo, cioè sul come viene condotta siffatta utilizzazione.

Una simile verifica sul come può partire da due esigenze che possono rimanere distinte, ma che è invece bene collegare strettamente. La prima esigenza è in sé di carattere storico, vale a dire di esatta determinazione del significato della teoria gramsciana, dei «segni» suoi propri, della natura e degli scopi ad essa inerenti. La seconda esigenza è di natura più propriamente politica e riguarda il chiarimento del rapporto fra teoria e pratica; questa esigenza di chiarimento può essere espressa nel seguente interrogativo: il tentativo, dal PCI tenacemente costruito, di presentare la sua strategia attuale («compromesso storico») come fondata sulle implicazioni della teoria dell’egemonia di Gramsci è legittimo o meno? Vorrei spiegarmi meglio. Nel porre a questo punto una questione di «legittimità» non intendo affatto avanzare un problema di determinazione storiografica dei concetti, bensì un problema politico, poiché, a seconda del fatto che il richiamo a Gramsci sia «autentico» o no, ne deriva un giudizio diverso sul PCI di oggi. È infatti evidente che una cosa è un partito il quale, nel fare politica in atto, sia contraddistinto da una unità di teoria e di prassi, e un’altra è un partito che viva utilizzando in modo almeno in parte strumentale il pensiero del suo massimo teorico, con una conseguente scissione, assai poco gramsciana, fra una certa dimensione della teoria (appunto il richiamarsi a Gramsci) e la sua prassi. Se si potesse affermare che, nella teoria e nella prassi del PCI, esiste una fondamentale continuità con la teoria gramsciana, ciò vorrebbe dire che i comunisti si muovono pur sempre all’interno di una ispirazione che potrebbe dirsi, sinteticamente, leninista-rivoluzionaria nel senso aperto storicamente dal 1917; altrimenti sì renderebbe necessario chiedere al Pci di chiarire in termini più definiti da un lato quale sia la natura reale del suo rapporto con la tradizione del bolscevismo e dall’altro quale sia la sua « natura » di forza socialista. Quello che ritengo si possa senza dubbi affermare è che una mancanza di chiarimento adeguato nel rapporto fra la teoria e la prassi porta all’«empirismo» sia teorico sia pratico.

Cerco di essere più esplicito. Il PCI è il maggiore partito della sinistra italiana; ha un grande seguito popolare; assai più del PSI ha portato avanti una politica ad ampio raggio sul fronte ideologico; ed è, in conclusione, la forza centrale e decisiva della sinistra italiana, con un peso crescente su scala internazionale. Esso ha perciò le maggiori responsabilità, cosicché i suoi problemi sono inevitabilmente i problemi di tutta la sinistra nel nostro paese, in modo diretto o indiretto.

I dirigenti di vario grado del PCI fanno valere questa forza continuamente, come dimostrazione nei fatti di una capacità teorica e pratica che di per sé dovrebbe rendere assai prudenti i suoi critici. Credo che si possano fare in proposito due osservazioni. La prima è che la storia mostra precedenti di partiti operai e socialisti i quali, proprio allorché pervennero ad un grado di massima forza in termini sia di consensi elettorali sia di larghezza e intensità di rapporti con le masse popolari, giunsero ciò nondimeno ad una «impasse» strategica caratterizzata anche da una scissione fra la teoria e la pratica (si pensi solo alla socialdemocrazia tedesca alla vigilia della prima guerra mondiale e al Partito socialista italiano nel primo dopo-guerra). La seconda osservazione è che il PCI in ogni caso dovrebbe valutare attentamente (se mai non lo faccia) il fatto che la sua forza attuale proviene, per dirla un po’ brutalmente, in misura consistente anche da una specie di rendita che la DC, con il suo malgoverno, e le tare storiche dell’assetto borghese in Italia hanno quasi regalato al maggior partito di opposizione, facendo convogliare verso di esso forze interclassiste variamente composite, giustamente disgustate della DC e deluse dall’incapacità o impossibilità del  PSI di condizionare incisivamente l’azione riformatrice dei governi nel periodo del «centro-sinistra». Il che comporta la natura in parte eterogenea, poco chiara, e persino passivamente protestataria di una certa base di «consenso» recentemente ottenuta dal PCI stesso. Di fronte a un simile fenomeno, è della massima importanza per tutta la sinistra «fare i conti» con estrema spregiudicatezza nei confronti delle questioni teoriche così da giungere a chiarire i presupposti teorici della pratica con piena consapevolezza. Senza questa, le scelte strategiche acquistano carattere quanto mai precario; senza questa consapevolezza, la base dell’ampio consenso di cui le sinistre (e in primo luogo il Pci) oggi godono potrebbe diventare, a più lunga scadenza, un elemento di sbandamento. Solo, infatti, una chiara prospettiva teorica o per lo meno l’individuazione di una chiara problematica può impedire che una componente significativa del consenso sia soggetta a brusche oscillazioni.

Detto tutto ciò, ritengo che uno dei modi per individuare una problematica teorica nei suoi termini corretti sia anche la risposta all’interrogativo: la strategia attuale del PCI è «compatibile» con quella indicata da Gramsci? E, più specificamente, la linea dell’«egemonia» perseguita dal PCI è riconducibile alla «teoria dell’egemonia» propria di Gramsci? È chiaro che, nel caso in cui si rispondesse (come dico subito che io faccio) che fra i due termini di confronto non vie è continuità politica ed intrinseca omogeneità di concezione, ciò non vorrebbe di per se dire che ci si trovi di fronte a un peccato di lesa maestà; ma ci si sbarazzerebbe di un equivoco, così ponendosi le premesse per l’identificazione della natura reale della concezione attuale dell’«egemonia» propria del PCI e per una realistica discussione sulle ragioni che hanno spinto il PCI a una evoluzione   diversa, sulla validità o meno dell’una e dell’altra concezione dell’egemonia rispetto ai compiti presenti.

L’INTERPRETAZIONE CANONICA DI GRAMSCI

Credo che qualsiasi discussione sulla «teoria dell’egemonia» elaborata da Gramsci debba tenere presenti le seguenti esigenze: 1) verificare quali siano le sue origini e mettere queste ultime in relazione ai suoi sviluppi, per arrivare a delle conclusioni circa la questione centrale se gli sviluppi abbiano introdotto rispetto alle origini delle variazioni qualitative, tali cioè da aprire una prospettiva differente; 2) verificare se gli sviluppi della teoria abbiano in Gramsci delle implicazioni che modifichino in modo sostanziale la teoria leniniana della dittatura del proletariato. 3) verificare insomma se il punto di approdo del pensiero di Gramsci, quale contenuto nei Quaderni, consenta o non consenta, sia pure solo in nuce, di considerare l’egemonia come qualcos’altro rispetto alla dittatura del proletariato, oppure se per Gramsci l’egemonia rimase sempre un modo per arricchire nelle sue articolazioni la teoria stessa della dittatura.

Il problema non è affatto accademico, poiché è noto a tutti che il PCI oggi porta avanti una teoria del potere socialista che non è più riconducibile a una teoria della dittatura proletaria, mentre i suoi ideologi affermano che la sua strategia è, per così dire, una «filiazione» del pensiero gramsciano.

Chi si è spinto avanti in siffatta direzione con la maggiore chiarezza è stato Luciano Gruppi. La sua interpretazione della «teoria dell’egemonia» di Gramsci è schematicamente la seguente: Gramsci è partito figlio del leninismo; nella fase immediatamente leninista l’egemonia era per Gramsci un aspetto diretto della dittatura del proletariato; messo di fronte alla sconfitta del movimento operaio all’inizio degli anni ’20, Gramsci ha aperto una fase di elaborazione fondata sulle differenze fra Oriente e Occidente, di cui i Quaderni sono la compiuta espressione concettuale; l’approdo di Gramsci è una meditazione sul leninismo culminata in una concezione del l’egemonia che porta non esplicitamente, ma potenzialmente o meglio metodologicamente, a quello che Gruppi chiama «un arricchimento della concezione leniniana dello Stato, in quanto lo Stato può venire concepito non più soltanto come macchina oppressiva e quindi da spezzare» (è davvero difficile immaginare un uso più ambiguo del termine «arricchimento» di quello qui fatto). Alla considerazione di cui sopra Gruppi aggiunge significativamente una frase che esprime, sia pure con un certo ermetismo, tutto il «succo» della sua interpretazione: «Appaiono le conseguenze che ciò può comportare nella teoria e nella pratica»[1]; e continua: «Tutta la concezione della via italiana al socialismo sarebbe inspiegabile ove non si partisse dal principio dell’egemonia….Cadrebbe insomma tutta una strategia e una tattica delle alleanze. Cadrebbe anche il rapporto fra riforme e rivoluzione… Cadrebbe anche la concezione del partito nuovo, di un partito cioè che non si limiti alla opposizione, negativa, alla indicazione propagandistica della soluzione socialista, ma che intervenga attivamente ad individuare e risolvere i problemi che concretamente si pongono»[2]. Più chiaramente di così non si sarebbero potuti indicare i termini di una interpretazione della continuità fra la linea di Gramsci e la linea del PCI attuale (il fatto che il saggio di Gruppi cui mi riferisco sia del 1967 non cambia il discorso e non diminuisce il riferimento all’attualità).

I nodi sono dunque questi: Gramsci ha aperto realmente la strada ad una concezione dello Stato (con tutte le conseguenze) che non sia più da spezzare? Gramsci, in sostanza, ha posto le premesse per il passaggio da una concezione dello Stato come espressione della dittatura del proletariato, della «democrazia proletaria» come opposto della democrazia parlamentare-borghese, della ideologia marxista come ideologia dell’«antitesi totale» a una concezione dello Stato borghese come Stato da «non spezzare», della democrazia «pluralistica» quale espressa dalle istituzioni democratico-parlamentari di matrice liberale, della «egemonia ideologica» come «pacifico» confronto fra le ideologie prodotte dalle varie forze sociali e politiche? Gramsci è il padre di una concezione della «egemonia» come «arricchimento» della dittatura del proletariato che in effetti pone le premesse per l’abbandono di questa?

L’ESPERIENZA CONSILIARE

Quando Gramsci scrisse nel 1926 che, già nel periodo «ordinovista», «i comunisti torinesi si erano posti concretamente la questione dell’ ” egemonia del proletariato “, cioè della base sociale della dittatura proletaria e dello Stato operaio»[3], egli era un corretto storico di se stesso, perché individuava esattamente nella strategia dei consigli di fabbrica l’origine della sua concezione della egemonia quale strumento per consentire al proletariato di «mobilitare contro il capitalismo e lo Stato borghese la maggioranza della popolazione lavoratrice»[4].

In che cosa si esprimeva la preoccupazione principale di Gramsci nel periodo consiliare? Egli era lucidamente consapevole che la mera forza, se pure poteva in circostanze eccezionali consegnare il potere, non poteva però in nessun modo costituire la base di una società avviata verso il socialismo. Sono troppo note le sue parole circa la necessità che il partito rivoluzionario sia circondato da un «prestigio» derivante dalla sua capacità di direzione e non ceda alle tentazioni autoritario-burocratiche, perché sia qui il caso di soffermarvisi. Non si valuterà mai adeguatamente il significato del consiliarismo gramsciano se non lo si considererà, prima e più ancora che come tentativo di individuare una soluzione «tecnica» del potere proletario in relazione ai problemi della produzione, quale ricerca di un terreno per dare al progetto di dittatura politica una base di egemonia sociale. La sua lapidaria affermazione che «il consiglio di fabbrica è il modello dello Stato proletario»[5] altro non è che un modo brillante e icastico per affermare che non vi può essere vero dominio politico senza direzione sociale, e per denunciare i limiti di qualsiasi dittatura di partito resa equivalente alla dittatura del proletariato. Al tempo stesso, è chiaro, la strategia dell’egemonia nel periodo consiliare è lo strumento per eccellenza non per un «allargamento» della democrazia, ma per il capovolgimento dell’ordine costituito: il consiglio è l’antitesi del potere padronale nella fabbrica; la ricerca da parte del proletariato delle alleanze con contadini e intellettuali è il mezzo per spezzare il blocco sociale borghese; la «riforma morale e intellettuale» delle masse è l’obiettivo da raggiungersi per annientare l’egemonia capitalistico-borghese sulla società civile e quindi rendere impossibile il dominio dello Stato che ne è manifestazione. Questa serie di antitesi rimase a fondamento del pensiero politico gramsciano fino alla sua conclusione. Ma, se ciò è esatto, ne segue che una teoria dello Stato, delle alleanze sociali, della funzione degli intellettuali, che culmini nella rinuncia alla «mobilitazione contro il capitalismo e lo Stato borghese» in termini di creazione di una «base sociale della dittatura proletaria e dello Stato operaio», non può essere ricondotta a Gramsci. Il ragionamento che dunque Gramsci conduceva negli anni 1919-1920 può essere abbastanza rapidamente delineato. Partendo dall’ipotesi, comune in generale al movimento rivoluzionario che si richiamava al bolscevismo, che la guerra mondiale avesse segnato in termini storici generali il destino del capitalismo, pronunciandone la condanna, egli era occupato dal problema del come giungere in Italia a un sistema di dittatura del proletariato il quale desse alla dittatura stessa un carattere espansivo, in grado di assolvere positivamente due compiti: la gestione della macchina produttiva e la costruzione di un blocco di forza sociale che, nel suo insieme, potesse contrapporsi con maturità e quindi con successo al blocco dominante. Il germe della teoria dell’egemonia era appunto nella coscienza che la pura forza contro le classi avverse non porta al successo della rivoluzione se questa non raggiunge una sua maturità sociale, se cioè non si costruisce una riserva adeguata di consenso politico e di capacità tecnico-gestionale. Il consiglio degli operai e dei contadini era per lui la fucina prima, la «cellula» primaria e fondamentale insieme della direzione del partito rivoluzionario sulle masse dei produttori e della dittatura verso le classi da abbattere. Dando per scontata in certo senso la maturità «oggettiva» della rivoluzione, il problema di Gramsci era la costruzione della maturità «soggettiva».

LA RIVOLUZIONE IN OCCIDENTE

Allorché, dopo il periodo che possiamo chiamare «bordighiano», Gramsci nel 1923-24 contrappose la sua direzione a quella di Bordiga, egli esplicitò con nuova chiarezza la sua teoria dell’egemonia. Ma questa esplicitazione non era una ripresa meccanica delle teorizzazioni del periodo consiliare, poiché vi era una situazione nuova, assai complessa. Bisogna soffermarsi brevemente sul significato della coscienza che Gramsci ebbe di questa complessità e porla in relazione ai suoi scopi. In una lettera del febbraio 1924, Gramsci afferma che in Occidente la presenza di sovrastrutture «create dal più grande sviluppo del capitalismo rende più lenta e più prudente l’azione delle masse e domanda quindi al partito rivoluzionario tutta una strategia e una tattica ben più complesse e di lunga lena di quelle che furono necessarie ai bolscevichi nel periodo fra il marzo ed novembre 1917»[6]. Gramsci anticipa qui, con una perfezione compiuta, il discorso dei Quaderni sul tema delle differenze fra Occidente e Oriente. Ma con quali altri elementi egli correla questo aspetto del suo discorso? In poche parole, a che cosa gli serve sottolineare la «complessità» occidentale? Forse per aprire un discorso «nuovo» sullo Stato, sulle componenti sociali del blocco storico, per elaborare un concetto dell’egemonia che si esprima in una proposta che modifichi il progetto della costruzione della dittatura e avvii la costruzione di una politica delle alleanze di tipo «democratico»? All’opposto. Il suo discorso è tutto fondato da un lato sulla presa di coscienza delle difficoltà «supplementari» create dal maggiore sviluppo della società capitalistica in Occidente, dall’altro sulla ricerca di una strategia che consenta di arrivare allo stesso risultato dei bolscevichi russi. La differenza che egli intende stabilire col bolscevismo poggia interamente su un concetto più complesso e, per così dire, «maturo» della dittatura del proletariato. Per questo Gramsci può affermare, contemporaneamente al discorso sulle «differenze» fra Oriente e Occidente, che lo scopo da conseguire è quello di arrivare alle «condizioni in cui i bolscevichi russi si erano trovati già fin dalla formazione del loro partito»[7].

Insomma, il problema di Gramsci è: superare tutti gli ostacoli che la complessità della società borghese in Occidente pone, con la creazione di una «aristocrazia operaia con i suoi annessi di burocrazia sindacale e di gruppi socialdemocratici»[8], alla bolscevizzazione del proletariato e, con il persistere di forze «democratiche», ad una politica delle alleanze che consenta la creazione di un «blocco storico» rivoluzionario. Quindi la direzione di marcia che Gramsci intende imprimere al movimento operaio e la sua concezione dell’«egemonia» sono interamente ispirate all’obiettivo di battere: 1) la socialdemocrazia, 2) le forze della «democrazia» borghese. Quel che Gramsci avverte è che, rispetto alla situazione russa, in Occidente la rivoluzione e il bolscevismo non possono avere successo se, già prima della rivoluzione, non si determina uno spostamento di forze in senso rivoluzionario, in grado di assicurare, su basi di «autonomia», un fondamento adeguato per una futura gestione dell’apparato produttivo moderno e dello Stato.

LE TESI DI LIONE

Quando si leggano le Tesi di Lione del 1926 per cogliervi quel che esse in effetti dicono, si vedrà che sono animate dall’esigenza della «bolscevizzazione», cioè della lotta contro «le correnti che costituivano una deviazione dai princìpi e dalla pratica della lotta di classe rivoluzionaria»[9], contro le «utopie democratiche» sullo Stato[10], contro quella «catena di forze reazionarie» che, partendo dal fascismo, attraverso i «gruppi antifascisti» come i liberali, i democratici, i combattenti, i popolari, i repubblicani, il partito socialista riformista, arriva al partito massimalista.

Anche i vari partiti «democratici» regionali come il Partito sardo d’azione sono considerati un «ostacolo» alla realizzazione della alleanza tra operai e contadini sotto la direzione del PCI[11]. L’attenzione dedicata alle «lotte parziali» è funzionale all’obiettivo della dittatura del proletariato e alla «fondazione dello Stato operaio»[12]. Gli ultimi punti delle Tesi (dal 42 al 44) indicano come meglio non si potrebbe il rapporto fra una tattica che utilizza strumentalmente le parole d’ordine «democratiche» e una strategia che ha come scopo di escludere ogni soluzione che non porti allo Stato proletario fondato sulla dittatura. La tattica del fronte unico «come azione politica (manovra)» ha la funzione di creare le premesse per una efficace «direzione» delle masse ad opera del Partito comunista e la conquista della maggioranza in mezzo ad esse e fallirebbe qualora non portasse a «smascherare partiti e gruppi sedicenti proletari e rivoluzionari». Proprio in relazione al problema dell’individuazione di una via efficace alla dittatura è introdotta l’osservazione che la tattica del fronte unico e l’adozione strumentale di parole d’ordine «democratiche» si rendono necessarie poiché persiste un’adesione delle masse ai partiti e gruppi da distruggere politicamente, la quale rende inopportuna in certe circostanze una «lotta frontale»[13].

È dunque qui da vedersi la radice della affermazione fatta nei Quaderni secondo cui va respinta la «guerra manovrata» prima che la «guerra di posizione» abbia dato i suoi frutti. Non si tratta perciò di una contrapposizione fra i due concetti di «guerra» bensì di una loro correlazione funzionale. Non ci si può lanciare all’assalto nella direzione della conquista del potere (Stato operaio e dittatura del proletariato) fino a che la lotta di trincea non abbia creato le premesse del successo: l’assalto distruttivo dell’avversario rimane però lo scopo supremo. Tant’è che la conclusione delle Tesi (che esprimono un corso di pensieri di cui gli Appunti sulla questione meridionale sono una esplicitazione particolare) suona così: la formula del «governo operaio e contadino» (parola d’ordine che in certo senso potremmo definire «democratica») «è una formula di agitazione, ma non corrisponde ad una fase reale di sviluppo storico se non allo stesso modo delle soluzioni intermedie (…). Una realizzazione di essa infatti non può essere concepita dal partito se non come inizio di una lotta rivoluzionaria diretta, cioè della guerra civile condotta dal proletariato, in alleanza con i contadini, per la conquista del potere. Il partito potrebbe essere portato a gravi deviazioni dal suo compito di guida della rivoluzione qualora interpretasse il governo operaio e contadino come rispondente ad una fase reale di sviluppo della lotta per il potere, cioè se considerasse che questa parola d’ordine indica la possibilità che il problema dello Stato venga risolto nell’interesse della classe operaia in una forma che non sia quella della dittatura del proletariato»[14]. Gramsci, dunque, proprio nello stesso periodo in cui ha già raggiunto una sua consapevolezza precisa (del tutto analoga a quella espressa nei Quaderni) circa le differenze fra Oriente e Occidente e ha espresso negli Appunti sulla questione meridionale una matura «teoria dell’egemonia» e del «blocco storico», ha del pari chiarito, senza possibilità di equivoci, il senso stesso della sua strategia: la dittatura del proletariato e lo Stato operaio. Che cosa differenzia, allora Gramsci dai fautori più «arretrati» della dittatura e dello Stato operaio? Ciò che lo differenzia è il fatto che egli intende dare alla dittatura e allo Stato una base che non sia quella della pura forza, poiché egli è convinto che la pura forza non può risolvere le questioni connesse alla costruzione di una nuova società, la quale abbisogna di un consenso attivo delle masse lavoratrici, da esprimersi naturalmente all’interno delle istituzioni sorte dalla rivoluzione e dalla rottura dell’apparato di governo borghese.

Questo aspetto Gramsci lo fa valere per quanto tocca la strategia, non solo in Italia e più in generale in Occidente, ma anche nella stessa Unione Sovietica. E’ in questa chiave, cioè alla luce della sua teoria dell’egemonia, che va letta l’affermazione, rivolta a Togliatti, secondo cui «oggi, dopo nove anni dall’ottobre 1917, non è più il fatto della presa del potere da parte dei bolscevichi che può rivoluzionare le masse occidentali, perché esso è già stato scontato ed ha prodotto i suoi effetti; oggi è attiva, ideologicamente e politicamente; la persuasione (se esiste) che il proletariato, una volta preso il potere, può costruire il socialismo»[15]. Tutte le riserve di Gramsci nei confronti dei metodi di Stalin sono motivate dalla preoccupazione che nell’URSS possa venire a mancare una capacità di egemonia, e che il dominio abbia un sopravvento unilaterale sulla direzione.

È mia convinzione che ciò che caratterizza Gramsci e la sua teoria dell’egemonia non sia affatto l’avere immesso elementi tali da aprire la strada a una concezione dello Stato di matrice liberal-parlamentare e alla via nazionale nel senso attuale del PCI, bensì il fatto di essere la più elaborata e complessa espressione del tentativo di dare alla dittatura del proletariato un fondamento adeguato. Sicché Gramsci è figlio più «indipendente» e anche autonomo, ma pur sempre figlio a tutti gli effetti della dottrina leniniana. Certo almeno questo egli era e intendeva essere ancora nel 1926. I Quaderni aprono una fase nuova? E in qual senso?

L’EGEMONIA COME FONDAMENTO DELLA DITTATURA

Non bisogna cercare di attenuare il significato del modo in cui Gramsci caratterizza Lenin nei Quaderni, proprio in quella sede in cui viene portata a compiutezza «filosofica» la sua teoria dell’egemonia. Egli, a proposito di Lenin, fa due affermazioni fondamentali, da considerarsi nella loro unità concettuale: 1) che Lenin deve essere considerato colui che ha impostato le basi della teoria stessa (« il principio teorico-pratico dell’egemonia ha anch’esso una portata gnoseologica e pertanto in questo campo è da ricercarsi l’apporto teorico massimo di Ilici alla filosofia della praxis »)[16]; 2) che Lenin però «non ebbe tempo di approfondire la sua formula»[17]. Ora, dove Gramsci rintraccia l’«insufficienza» di Lenin? Proprio in ciò che riguarda le indicazioni relative al passaggio in Occidente dalla «guerra di posizione» alla «guerra manovrata», per arrivare pur sempre alla dittatura del proletariato. È una vera distorsione immaginare che una delle implicazioni del tentativo gramsciano di sviluppare il leninismo sulla base della consapevolezza della diversità fra Occidente e Oriente, sia nientemeno che la «messa in soffitta» della teoria leniniana dello Stato e dell’obiettivo della dittatura proletaria.

Quando esprime la sua celebre formula, che ha per lui il valore di un principio generale di scienza della politica: «La supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi, come ‘dominio’ e come ‘direzione intellettuale e morale’», Gramsci è di una chiarezza esemplare. La sua preoccupazione non è affatto quella di attenuare il significato della necessità che una classe dominante annienti politicamente e socialmente gli avversari; egli per contro lo ribadisce a tutte lettere. Quel che intende chiarire, è che la forza da sola non è sufficiente, e anzi che la sola forza è segno di una insufficiente maturità storica di chi pretenda di fondare uno Stato nuovo, che una classe dominante non può governare se, mentre esercita il suo dominio (dittatura) verso gli avversari, non è anche in grado di ottenere il consenso delle forze sociali alleate (che però devono avere una base sociale ed economica tendenzialmente omogenea), oggetto di direzione. L’egemonia è dunque la stessa cosa della dittatura, di una dittatura però che (ecco il punto decisivo) deve essere altra cosa dalla dittatura di una forza politica senza capacità di direzione sulle forze economico-sociali indispensabili a far funzionare in modo nuovo la produzione materiale e intellettuale. Se si tiene presente tutto ciò, risulta del tutto limpido quanto Gramsci fa seguire all’affermazione: «Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a “liquidare” o a sottomettere anche con la forza armata ed è dirigente dei gruppi affini e alleati». Allorché aggiunge che «un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo»[18], egli continua un ragionamento perfettamente coerente con quello svolto nel 1926 circa il fatto che non si può conquistare il potere se, mentre si lotta contro gli avversari, non si conquista la direzione sui gruppi affini con manovre «tattiche» volte a distruggere l’influenza esercitata sulle masse dalla «catena delle forze reazionarie». In Occidente ciò significa appunto distruggere le forme in cui si realizza l’egemonia borghese anche attraverso i «democratici» e gli pseudo-socialisti. Tutta la sua teoria del «centralismo democratico» è nei Quaderni volta ad assicurare una base di direzione dei vertici verso la base del partito rivoluzionario ed è una specificazione, interna al partito, dell’egemonia, che ha una sua specificazione ulteriore nel rapporto fra il partito nel suo complesso e gli alleati. Chi sono questi alleati? Sono sempre e solo per Gramsci forze economico-sociali, non altri partiti che rimangano su una prospettiva autonoma diversa da quella della dittatura del proletariato.

IL MARXISMO COME FILOSOFIA TOTALE

Si osservi come Gramsci ribadisca nei Quaderni il carattere «totale» del marxismo e insista sul fatto che il marxismo, nella sua unità di teoria e prassi, non sia materia di «dialogo» con le altre visioni del mondo, bensì solo mezzo di conquista delle altrui posizioni al fine di sostituire un’egemonia a un’altra; si osservi, insomma, come il carattere «totale» del marxismo sia una dimensione del progetto della dittatura proletaria o, in altri termini, di una democrazia di tipo nuovo, costruita cioè all’interno delle istituzioni dello Stato proletario come antitesi di quello borghese. A proposito di questo carattere «totale», Gramsci scrive: l’«ortodossia» del marxismo va ricercata «nel concetto fondamentale che la filosofia della praxis “basta a sé stessa”, contiene in sé tutti gli elementi fondamentali per costruire una totale e integrale concezione del mondo, una totale filosofia e teoria delle scienze naturali, non solo, ma anche per vivificare una integrale organizzazione pratica della società, cioè per diventare una totale, integrale civiltà (…). Una teoria è appunto “rivoluzionaria” nella misura in cui è elemento di separazione e distinzione consapevole in due campi, in quanto è un vertice inaccessibile al campo avversario. Ritenere che la filosofia della praxis non sia una struttura di pensiero completamente autonoma e indipendente, in antagonismo con tutte le filosofie e le religioni tradizionali, significa in realtà non aver tagliato i legami col vecchio mondo, se non addirittura aver capitolato»[19]. Ed ecco che, proseguendo, Gramsci caratterizza in termini «del più abbietto e vile opportunismo» una concezione del partito politico che scinda il carattere unitario teorico-pratico e consenta «ai soci di aggrupparsi in idealisti, materialisti, atei, cattolici, ecc.»[20]. Solo tenendo presente quanto precede si può intendere il senso della valorizzazione compiuta da Gramsci del fattore culturale, dell’aspetto etico-politico della egemonia; senso, che significa ricerca dell’espansione del marxismo in lotta contro tutte le altre concezioni e della vita e della politica. Nel momento in cui scrive che «la fase più recente» di sviluppo della filosofia della prassi «consiste appunto nella rivendicazione del momento dell’egemonia come essenziale nella sua concezione statale e nella “valorizzazione” del fatto culturale, dell’attività culturale, di un fronte culturale come necessario accanto a quelli meramente economici e meramente politici»[21], egli altro non fa che affermare che lo Stato-forza abbisogna di una base adeguata di consenso ottenuto grazie ad una lotta vittoriosa contro le altre concezioni e della Stato e della politica e della vita in generale. È un modo di ribadire che, se il mero momento della forza è necessario ma insufficiente, i limiti della zona di consenso da acquisirsi, sono all’interno di una determinata concezione dello Stato. Non è un caso che sempre a Lenin Gramsci riconduca la genesi di quella elaborazione della teoria dell’egemonia, cui egli cerca di dare uno sviluppo: «Il più grande teorico moderno della filosofia della praxis, nel terreno della lotta e dell’organizzazione politica, con terminologia politica, ha in opposizione alle diverse tendenze “economicistiche” rivalutato il fronte di lotta culturale e costruito la dottrina dell’egemonia come complemento della teoria dello Stato-forza e come forma attuale della dottrina quarantottesca della «rivoluzione permanente»[22]

L’ESPRESSIONE PIÙ ALTA DEL LENINISMO

Un altro aspetto del pensiero di Gramsci circa il significato dell’egemonia in rapporto alla dittatura emerge là dove egli esamina le concezioni di Croce e Gentile. Che cosa osserva Gramsci? Egli nota: 1) che «per Gentile la storia è tutta storia dello Stato», che per lui «egemonia e dittatura sono indistinguibili», nel senso (unilaterale) che «la forza è consenso senzaltro», che «esiste solo lo Stato e naturalmente lo Stato governo, ecc.»; 2) che per Croce la storia «è invece “etico-politica”» cioè che questi «vuole mantenere una distinzione tra società civile e società politica, tra egemonia e dittatura»[23]. Come possiamo sintetizzare, a questo punto, la posizione di Gramsci? Gramsci in effetti, nella sua concezione dell’egemonia, si distacca da Gentile nel senso che rifiuta (e qui è la sua caratteristica peculiare) l’identificazione tra dittatura ed egemonia, poiché tutta la sua concezione è volta a spiegare che esistono Stati che poggiano su dittature incapaci di egemonia; e si distacca altresì da Croce nel senso che non ritiene distinguibili, al modo in cui questi fa, l’«egemonia» dalla «dittatura», la «società civile» dalla «società politica». Sintetizzando, si può affermare che secondo Gramsci il sistema dell’egemonia è riconducibile al sistema della dittatura, ma che può esistere un sistema di dittatura incapace di esprimersi in termini di egemonia, mentre l’egemonia deve inserirsi come specificità di una dittatura capace di risolvere insieme il momento del dominio sulle classi avverse e quello della direzione sulle classi alleate e sui gruppi affini.

Pare evidente, in conclusione, che quando cerca il modo di essere adeguato di uno Stato operaio, Gramsci lo trova nella concezione dell’egemonia. Esiste certo un sistema egemonico borghese fondato sul modo di produzione capitalistico ed espresso nello Stato democratico-borghese; deve secondo lui esistere anche un sistema egemonico fondato sul superamento del modo capitalistico ed espresso in quello Stato che organizza, per le classi e i gruppi appartenenti al «blocco storico rivoluzionario», forme di «democrazia proletaria» e, per le classi e i gruppi ostili allo Stato operaio, forme di controllo e di repressione basate sulla violenza. Quel che certo appare inaccettabile per Gramsci è una concezione dello Stato come espressione «generale», della democrazia quale quella oggettivatasi nel sistema liberale-rappresentativo, del marxismo come una delle varie ideologie, in concorrenza con le altre, inserita in un «pluralismo istituzionalizzato», di un partito in cui il marxismo stesso possa convivere con fedi religiose e dottrine di diversa matrice. Per dirla in poche parole, credo che si debba affermare con forza che la teoria dell’egemonia gramsciana è l’espressione più alta e complessa del leninismo, in nessun modo un ponte di passaggio fra il leninismo e una concezione della lotta politica e dello Stato che contrapponga il sistema dell’egemonia al sistema della dittatura e dello Stato quali espressi da Lenin, da colui che Gramsci, quasi a evitare per il futuro ogni equivoco, chiama il San Paolo del marxismo[24]. Nella visione gramsciana, il momento «costantiniano» era ancora tutto di là da venire.

LA TERZA INTERNAZIONALE

Al fine di cogliere la motivazione profonda del leninismo «strutturale» di Gramsci, è necessario sottolineare il fatto che egli era in pieno partecipe di una interpretazione della natura dell’epoca storica che si collegava a quella propria della Terza Internazionale e dell’analisi teorica dell’Imperialismo di Lenin. Egli era del tutto convinto che il socialismo fosse maturo oggettivamente ormai da tempo. Come riferisce Athos nelle sue Memorie, sintetizzando questa convinzione in poche parole, Gramsci «partiva dalla considerazione che le condizioni oggettive per la rivoluzione proletaria esistono in Europa da più di 50 anni».

Solo quando si tenga presente siffatta convinzione di Gramsci, si può collocare adeguatamente il vero significato della sua opposizione alla teoria del social-fascismo e alla linea politica avventuristica che ne discendeva. Egli non si opponeva a questa in quanto riteneva che la lotta al fascismo dovesse essere condotta in nome della ricostituzione del sistema di democrazia di matrice liberale nel quadro di una «Costituente» di tipo «democratico», quale quella che si ebbe in Italia dopo la fine del conflitto mondiale; ma in quanto pensava che occorresse una fase «intermedia», la quale, con le debite differenze, consentisse al partito rivoluzionario di accumulare le forze necessarie ad arrivare a un «ottobre» italiano. Il suo dissenso con la linea del social-fascismo verteva sul fatto che essa pretendeva di arrivare a uno scopo che egli pure condivideva senza una fase tattica adeguata che aveva indicato già nel 1924: trovare la strada per porsi nelle condizioni in cui si erano posti i bolscevichi e per arrivare alla dittatura del proletariato. In breve, il suo dissenso stava nel fatto che egli accusava il PCI e l’Internazionale di concepire in modo schematico le premesse della dittatura e di non comprendere l’importanza della costruzione della dimensione «egemonica», altrettanto indispensabile. Il dissenso era dunque fra due concezioni aventi per unico oggetto le basi della dittatura del proletariato.

Lisa è molto preciso: «l’esposizione (di Gramsci) sul tema della Costituente fissava questi due concetti: 1) tattica per la conquista degli alleati del proletariato; 2) tattica per la conquista del potere». La funzione della fase di «transizione» ha come obiettivo di far capire alle masse rurali la «giustezza» del programma comunista «e la falsità di quello degli altri partiti politici»; «il partito ha come obiettivo la conquista violenta del potere, della dittatura del proletariato, che egli deve realizzare usando la tattica che è più rispondente a una determinata situazione storica, al rapporto di forze di classe esistenti nei diversi momenti della lotta»; «la “Costituente” rappresenta la forma di organizzazione nel seno della quale possono essere poste le rivendicazioni più sentite della classe lavoratrice nel seno della quale può e deve svolgersi, a mezzo dei propri rappresentanti, l’azione del partito che deve essere intesa a svalutare tutti i progetti di riforma pacifica, dimostrando alla classe lavoratrice italiana come la sola soluzione possibile in Italia risieda nella rivoluzione proletaria». Può ben comprendersi come, al fine di evitare ogni equivoco possibile intorno a una interpretazione «democratica» della sua concezione della funzione della Costituente, Gramsci ricordasse che «in Russia l’art. 1 del programma di governo del Partito bolscevico comprendeva la “Costituente”»; e concludesse dicendo che la parola d’ordine del partito doveva essere: «Repubblica dei soviet operai e contadini in Italia»[25].

Non tener conto di tutto ciò nell’interpretare la teoria dell’egemonia di Gramsci quale espressa nei Quaderni vuoi dire mutilarla così da servire una attualità politica affatto estranea all’impostazione e alla prospettiva di Gramsci.

L’ABBANDONO DELLA CONCEZIONE GRAMSCIANA

Non si possono comprendere le posizioni di Gramsci sopra riportate se non inquadrandole nell’analisi più generale del capitalismo da lui compiuta e in quella più particolare del fascismo. Egli non giudicava pensabile una ulteriore fase espansiva del capitalismo di carattere organico e considerava perciò la lotta di classe come segnata fondamentalmente dalla dialettica rivoluzione-controrivoluzione, in un’epoca la cui natura era essenzialmente quella di epoca della rivoluzione sociale. Il fascismo rappresentava una forma di controrivoluzione incapace in sé di avere altro carattere che di controrivoluzione passiva; e perciò Granisci riteneva che la fine del fascismo dovesse coincidere con la ripresa dell’attualità della rivoluzione proletaria, seppure segnata da problemi di tattica quali quelli che abbiamo sopra ricordati.

Altra fu la situazione che in effetti si aprì dopo la fine del nazifascismo, anzitutto nel mondo e poi in Italia, tal che la strategia gramsciana venne accantonata. Il capitalismo mondiale trovò una leadership negli Stati Uniti, sotto le cui ali venne intrapresa la ricostruzione capitalistica nell’Europa fuori dalla sfera sovietica. Questo volle dire che le istituzioni democratico-borghesi e la loro espressione statale divennero l’ambito nel quale per un’intera nuova epoca storica (che è quella attuale) i partiti comunisti dovettero collocarsi. Insomma, cambiarono profondamente, rispetto all’ipotesi gramsciana, le stesse carte disposte sul tavolo. I rapporti fra le classi risultarono diversi anzitutto sul piano della forza interna e internazionale, rendendo irrealistico ogni progetto di attacco e mutamento delle istituzioni in senso antiborghese. La «guerra di posizione» spezzò, per così dire, il proprio nesso con la «guerra manovrata». Fu in questo contesto nuovo che, attraverso contraddizioni e contrasti, maturò progressivamente nel PCI una concezione dell’«egemonia», poi assunta in modo definitivo, con una accelerazione negli ultimi anni, avente caratteristiche qualitativamente diverse rispetto alla concezione gramsciana. Poggiando sull’accettazione delle istituzioni parlamentari, sul riconoscimento della pluralità dei partiti quali rappresentanza e organizzazione dei diversi gruppi e delle diverse classi sociali — ormai anche per quanto concerne la «costruzione del socialismo» — su una concezione del «pluralismo» ideologico-politico come espressione organica e necessaria della democrazia, su una ipotesi di partecipazione al governo nei termini del «compromesso storico», il PCI è pervenuto a una concezione dell’«egemonia» che è tutt’altra cosa di quella di chi, al modo di Granisci, intendeva porla a fondamento dello Stato operaio, della assoluta supremazia, sotto la direzione politica del PCI, del proletariato industriale sui suoi alleati (limitati a quelle forze sociali che potessero costituire una «antitesi» rispetto al «blocco» sociale diretto dalla borghesia), di una concezione del marxismo come elemento di distinzione e separazione assoluta rispetto a tutte le altre concezioni, di una visione della democrazia interna al solo blocco sociale rivoluzionario.

Per Gramsci, coerentemente con il suo leninismo «strutturale», la democrazia era tre cose, e solo queste: 1) un mezzo per una «riflessione» fra eguali politici (cioè fra comunisti) sui presupposti e le modalità della loro azione; 2) un mezzo per dirigere forze sociali «subalterne»; 3) un mezzo per consentire al partito rivoluzionario di raccogliere le forze necessarie per «distruggere», con la razionalità e la persuasione, i falsi idoli che ancora signoreggiano le coscienze degli alleati «subalterni», e quindi per creare le basi della dittatura verso i sostenitori attivi del vecchio mondo. Il «pluralismo» di Gramsci (se egli mai avesse usato questo termine) non era certo ciò che oggi intende il PCI in relazione ai problemi posti dal suo inserimento nelle istituzioni democratico-repubblicane di matrice liberale, dove una concezione del mondo entra in «libera concorrenza» con le altre, puntando alla «vittoria del migliore».

Senza dubbio l’evoluzione del PCI non è stata in primo luogo di natura dottrinale; essa è stata, per contro, anzitutto il risultato di una precisa realtà economico-sociale. Di fronte al dato che la realtà del capitalismo internazionale e i rapporti fra i «blocchi» avevano in Occidente e in Italia reso inattuabile una relativamente rapida alterazione dei rapporti di forza tra le classi sociali in direzione dell’abbattimento del capitalismo stesso e delle sue istituzioni, di fronte all’ostica realtà che la conservazione sociale aveva una vasta base politica di massa, il PCI si è trovato a doversi porre un compito nuovo: quello di inserirsi in siffatto contesto e di accettare le tecniche atte a «regolare» le relazioni fra classi e gruppi sociali diversi, fra differenti partiti di massa, accantonando un progetto di alterazione di questi rapporti secondo una dinamica che portasse allo Stato operaio. Messo di fronte al dato che la borghesia in Italia ha avuto la forza per imporre le proprie istituzioni statali, sia pure in un quadro costituzionale democratico avanzato, il PCI si è proposto di «occupare» le istituzioni con un’azione «egemonica» che da un lato rinuncia allo Stato operaio e alla dittatura del proletariato e dall’altro mira a conquistare la direzione dello Stato parlamentare. Una concezione dell’«egemonia», questa, del tutto diversa da quella gramsciana. È indubbio, però, che a siffatta nuova strategia il PCI è giunto anche «utilizzando» Gramsci. Maturata la crisi del «modello sovietico», il PCI poté trovare un punto di riferimento nella critica che Gramsci, alla luce della sua teoria dell’egemonia, aveva incessantemente rivolto ad un progetto socialista che rimanesse chiuso in una concezione angusta dello Stato-forza e che identificasse meccanicamente la dittatura di un partito con la dittatura del proletariato. Ma, poi, «mise la sordina» agli altri aspetti della teoria dell’egemonia di Gramsci (a quelli cioè connessi con una concezione espansiva della dittatura del proletariato), così da avallarne una interpretazione secondo cui le critiche da lui rivolte ad una dittatura senza «egemonia» aprivano, almeno implicitamente, la strada allo «scorporamento» dell’egemonia dalla dittatura.

LA «SAPIENZA CATTOLICA» DEL PCI

Ho cercato di mettere in rilievo come il PCI, nel tracciare la sua strategia attuale, si sia trovato di fronte a problemi pratici nuovi rispetto a quelli di Gramsci e alle sue ipotesi. È però necessario che il PCI esca dai tatticismi teorici, che faccia i conti con la «tradizione» teorica in modo più limpido, mettendo da parte quella «sapienza cattolica» cui tutto è «adattamento» e niente è «mutamento». La sua teoria dell’egemonia è una teoria di segno inequivocabilmente e qualitativamente diverso rispetto a quella di Gramsci. È diversa rispetto sia ai mezzi sia agli scopi.

La teoria di Gramsci è la massima espressione teorica, come ho sottolineato in precedenza, di quella fase storica del movimento comunista internazionale che si è aperta con la rivoluzione di ottobre e si è chiusa al momento dell’affermazione dello stalinismo in regime. La teoria della egemonia del PCI è per contro espressione del tentativo di elaborare una strategia sulla base della fondamentale accettazione delle istituzioni esistenti in Occidente e della liquidazione crescente della fase storica staliniana. Chiedere al PCI di far poggiare la propria pratica su un confronto meno «tatticistico» con il patrimonio teorico passato risponde non solo ad una esigenza di «verità», ma anche e soprattutto a un’esigenza politica. Tutta la sinistra italiana, di cui nessuno dimentica che il PCI è componente essenziale, ha bisogno di una maggiore verità quale fondamento di un maggiore realismo. Chi scrive è convinto che, negli aspetti essenziali, la politica del PCI sia tale da ricongiungere questo partito alla concezione dello Stato, dei rapporti fra le classi, della «via al potere», della funzione stessa dei «governi di coalizione», propria del marxismo socialdemocratico assai più che alla concezione leniniana e anche gramsciana, con l’unica eccezione di un «residuo» leninista, di primaria importanza però, nei criteri di organizzazione interna del partito, residuo che è per lo meno dubbio se potrà sopravvivere. Se questa è la realtà, bisogna discuterla. Se la realtà è un’altra, bisogna chiarirne meglio i termini.

Non è mai segno di forza lo stabilirsi di un rapporto clerico celebrativo con il passato (o meglio, forza può anche essere, ma per i conservatori), salvo poi a procedere nei fatti in modo «trasformistico». Il «trasformismo» ha un posto rilevante nel «clericalismo marxista». Quando i socialdemocratici si ricongiunsero alla concezione liberale dello Stato, dissero di farlo «interpretando» Marx; quando Stalin fece quel che fece, affermò che il suo era puro oro leninista; e così via. Ora che il socialismo si trova a confronto con situazioni difficili, è necessario procedere con la piena assunzione delle responsabilità, in primo luogo teoriche. Mi pare in ogni caso chiaro che la strategia del «compromesso storico», il «pluralismo ideologico», la lotta per la trasformazione «democratica» dello Stato non hanno nulla a che fare con il pensiero di Antonio Gramsci, il massimo e più creativo interprete del leninismo storico, e segnano una svolta definitiva rispetto ad esso. La storia è interessante anche perché non consente a nessuno di vivere oltre un certo limite di rendite costruite nel passato. Si può magari farlo per un certo periodo, ma prima o poi ci si trova «nudi»; e non è detto che, in ultima analisi, ciò sia sempre un male, se non altro perché ci si fa vedere quali si è.

 

[1] L. GRUPPI, Il concetto di egemonia, in AA.VV., Prassi rivoluzionaria e storicismo in Gramsci, «Critica marxista», Quaderni n. 3, 1967, p. 88

[2]  Ibid. pp. 94-95. 3 A. GRAMSCI, Alcuni temi della questione meridionale, in La costruzione del Partito comunista 1923-1926, Torino 1971, pp. 139-140. 4 Ibid., p. 140

[3] A. GRAMSCI, Alcuni temi della questione meridionale, il La costruzione del Partito comunista 1923-1926. Torino 1971, pp. 139 – 140.

[4] Ibid., p. 140.

[5] A. GRAMSCI, L’Ordine Nuovo, 1919-1920, Torino, 1955, p. 37.

[6] A. PALMI, URBANI e C., lettera in data 9 febbraio 1924, in P. TOGLIATTI, La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano, Roma 1962, pp. 196-97

[7] A. GRAMSCI, La costruzione ecc., cit., p. 64

[8] A. PALMI, URBANI e C., lettera cit., p. 197

[9] La situazione italiana e i compiti del PCI [Tesi di Lione], in A. GRAMSCI, La costruzione ecc., p. 488.

[10] Ibid. p. 489

[11] Ibid. p. 499.

[12] Ibid. p. 500.

[13] Ibid. p. 511-513.

[14] Ibid. p. 513.

[15] Gramsci a Togliatti, lettera del 26 ottobre 1926, in A. GRAMSCI, La costruzione ecc., pp. 136-137.

[16] A. Gramsci, Quaderni del carcere, II, Torino, 1975, pp. 1249-50.

[17] Ibid., p. 866.

[18] Ibid., III, Torino 1975, pp. 2010 – 11.

[19] Ibid., II, p. 1434.

[20] Ibid., p. 1434.

[21] Ibid., p. 1224.

[22] Ibid., p. 1235.

[23] Ibid. p., 691.

[24] Ibid., p. 882.

[25] A. Lisa, Memorie: In carcere con Gramsci, Milano, 1973, pp. 86-89.