Luciano Cafagna – “C’era una volta…..riflessioni sul comunismo italiano”, Marsilio, Venezia, 1991.

Luciano Cafagna è stato, senza ombra di dubbio, uno dei più lucidi e attenti intellettuali del Dopoguerra. Storico, storico dell’economia, sociologo non si rado anticipatore di scenari futuri, la cui coerenza era incastonata in una raffinatezza di pensiero che, come ebbe a dire Giorgio Ruffolo, ne faceva «un critico caustico ed impietoso testimone del suo paese». Fu un socialista democratico, fuoriuscito dal Pci in dissenso con l’invasione sovietica in Ungheria del 1956, insieme a Giolitti. Ed è forse proprio per questa sua poliedricità di competenze ed esperienze, che vale sempre la pena rileggere le sue opere. Tra queste, “C’era un volta il Pci…riflessioni sul comunismo italiano”, appare la più indicata per ripercorrere i tratti del Partito comunista del nostro paese. Soprattutto perché, a nostro giudizio, potrebbe dare delle chiavi di lettura fuori dagli schemi e da molti luoghi comuni, che in questo anniversario dei cento anni dalla scissione di Livorno sono inevitabilmente venuti fuori. Questo testo è una importante penetrazione, nel bene e nel male, del mito del “nostro” comunismo. Perché, a volte, nella storia possono esservi sempre degli «shibbolet», ovvero “inavvertiti residui di precedenti convinzioni, rese obsolete da nuove evidenze, che ostinatamente permangono nei discorsi, ragionamenti, atteggiamenti i quali presumono, invece, di muoversi interamente in aria nuova […]: una convinzione, un giudizio, un criterio, una presa di posizione, cui sono venute a mancare le fondamentali basi di supporto giustificativo […] eppure continua a muoversi, nelle teste e nelle parole, come se nulla fosse”. Questi «shibbolet», secondo Cafagna, potevano annidarsi anche in quel post-comunismo che cambiando nome ha avuto la necessità anche di una nuova prospettiva ideale. Un mutamento che dovrebbe portare con sé degli obblighi di coerenza “non solo di immagine verso gli altri ma anche funzionali verso sé stessi”. 

Il Pci, a giudizio dell’autore, è stato un successo innegabile, passando dal 18% dei consensi nel 1946 al 33% nel 1976. Successo figlio di un intreccio peculiare fra gli effetti di un mito-modello di nuova società e gli quelli di un confronto politico interno, in cui la dirigenza italiana ha operato con «sapiente ambiguità». Ed è proprio in questa ambiguità che vanno ricercati gli «shibbolet». 

Togliatti utilizzò con abilità l’incrocio fra la tipica propensione al massimalismo anarchico ed estremista nel nostro paese e il «desiderio di rifugio sotto guida autoritaria». Egli, che fu il massimo artefice di questo disegno, si era formato negli anni immediatamente precedenti la Prima guerra mondiale, in un clima di massimalismo e critica «estetico-moralistica della democrazia», riuscendo sempre a governarlo, facendo prevalere su di esso un’autorità indiscussa: quella del Partito. Il Pci, così, crebbe grazie al combinato di vari fattori: «coltivazioni di leggende […]. Vecchi e mai sopiti spiriti massimalisti […] e nuovi bisogni di identificazione collettiva e di autorità protettiva». Alla base c’era il mito della leggenda sovietica, che in Italia fu lento a declinare. 

Il primo capitolo del libro è dedicato a Gramsci e alla sua critica della democrazia. Il fondatore del Pci si forma in un periodo dove la democrazia non è criticata perché è in crisi istituzionale, ma è l’idea stessa della democrazia ad essere messa pesantemente in discussione. E questa critica apparteneva sia alla destra come alla sinistra, nel tentativo di stritolarla «spazzando via il campo della mediazione per lasciar posto solo ad alternative estreme». 

Erano, quelli, gli anni della teorizzazione del «mito», di cui George Sorel fu il principale maître a penser, con la sua teoria della spontaneità: «quella specie di furore giansenistico contro le brutture del parlamentarismo e dei partiti politici», come lo stesso Gramsci ebbe a scrivere nei Quaderni. L’«agitazione culturale» rappresentava una «complessa e contorta aspirazione sociale di sostituzione» di ceto politico […], della violenza come alternativa e motore del cambiamento. La cui richiesta non proviene da forze di estrazione borghese, appartenenti al mondo produttivo, e neanche dalla classe operaia dell’industria, ma ha le sue origini in una parte specifica del mondo della cultura: tra quegli intellettuali – definiti da Cafagna – come «ideologici», che ambivano a una profonda «riforma morale e sociale» del Paese. Gramsci distinguerà da Sorel le conclusioni specifiche, ma sarà impregnato dello spirito del sorelismo, visibile nelle sue invettive verso il principio rappresentativo, ed esemplificato dall’entusiasmo verso l’avvento dei Soviet. Con buona pace di Gaetano Salvemini che, in quel torno di tempo, esortava dicendo: «Badate, un ideale migliore dell’ideale della democrazia non c’è».

Nel secondo capitolo del libro, passando in rassegna le «Tesi di Lione», Cafagna rilevava che, nonostante l’elaborazione di queste nel congresso del partito nella città francese (20-26 gennaio 1926), rimaneva in piedi l’ipotesi rivoluzionaria, pur se fosse evidente che tra il 1925 e il 1926 il contesto politico fosse enormemente cambiato. Eppure, già Angelo Tasca, tra i fondatori del PCd’I, si poneva interrogativi diversi rispetto alla linea da tenere. La scelta del PCd’I di schierarsi con l’Internazionale comunista ne salva «l’identità nella fusione con una autorità esterna». Ma l’avvento della dittatura fascista in Italia non pone al centro della riflessione politica il problema del ritorno alla democrazia per un motivo molto semplice: perché il gruppo dirigente comunista non aveva mai creduto realmente in essa. E da questo nasce anche la volontà di non confondersi con le altre forze sparse dell’antifascismo democratico, che invece perseguivano una prospettiva di restaurazione-rifondazione della democrazia.

L’elaborazione prevalente delle cause del fascismo si spostano sul concetto di «debolezza della borghesia italiana». Tale debolezza spiegherebbe in tutto la venuta del fascismo, arrivando alla costruzione di una sorta di «sublimazione della sconfitta» patita dai comunisti, che così avrebbe solo radici esterne, e non dovuta invece a errori strategici o peggio di impostazione ideologica. Ma, a rigor di logica marxista, alla debolezza della borghesia corrisponde, come faceva notare Antonio Labriola, la parimenti debolezza del proletariato. Ciò porterebbe ad una inversione tra struttura e sovrastruttura, con un proletariato non più attore sociale, ma politico, con buona pace di ogni scientificità marxiana (sfumano così i ruoli di classe). Questa pare cedere il posto alla tradizione pre-marxista russa, in cui l’arretratezza del soggetto sociale poteva diventare un privilegio. Ed è qui che si innesta il discorso dell’egemonia, che, per Cafagna, non è altro che la «delegittimazione della facoltà di rappresentanza altrui». Il settarismo comunista si presentava come ostacolo insuperabile, perché incompatibile con ogni tipo di unitarismo. Unico era il «legittimato» a sinistra. Unica la base della legittimazione: la rivoluzione. Unico il “copione giusto” per l’azione: ovvero, il gruppo dirigente del partito, il quale pur consapevole della debolezza propria e dell’avversario, colmerebbe le proprie lacune con l’organizzazione. L’egemonia ne verrebbe fuori come il risultato di due debolezze. Una borghesia debole, la quale lascerebbe spazio sociale per alleanze alla classe antagonista. Nella visione gramsciana si parla di «egemonia nel contesto dell’esercizio di potere», riprendendo una delle elaborazioni del concetto di stampo leninista, in cui «l’egemonia proletaria nella fase di passaggio al socialismo viene evocata […] come fatto culturale […]», anche perché i «tempi diventano lunghi». Ragionamento in cui, secondo l’autore, non si fa altro che attenuare una soggezione fortissima, rimanendo in piedi il teorema secondo il quale «gli egemonizzati devono subire l’egemonia in quanto socialmente-culturalmente inferiori». Gramsci, fondamentalmente, darebbe solo una dignità culturale all’espressione dell’egemonia leninista. 

 Il gruppo dirigente comunista era connotato da una forte ambizione elitaria, e si sentiva portatore di quella missione storica, di riforma morale e sociale (ancora per Berlinguer il comunismo era serietà e diversità!), che la borghesia non era stata capace di realizzare. Era la cultura del moderno principe, così come elaborata da Gramsci nei Quaderni. 

Nel concetto di «rivoluzione nel lungo periodo» si inserisce bene anche l’idea di «cattura degli intellettuali […] in senso lato – giovani, disoccupati, male-occupati, male-integrati […]; (essi) non sono un numero. Come il papa, non hanno divisioni in assetto di guerra. Ma sono coefficiente moltiplicatore di numero: formano quadri, attivisti, militanti; occupano posizioni strategiche come tavolini da caffè, aule universitarie, mass-media; creano e garantiscono linguaggi». 

Riguardo le Tesi, Gramsci provò in seguito ad approfondire i suoi argomenti, e le riserve che in lui maturarono in carcere aprirono un dramma personale. Togliatti, invece, si mosse sempre in uno spirito di continuità con esse. Egli fu il custode della «mediazione tra l’identità culturale del gruppo torinese e la superiore protezione dell’Internazionale». Per lui rimarrà fisso il passaggio dalla guerra manovrata alla guerra di posizione. Ma il gruppo di Lione, che nutriva la speranza di emanciparsi dall’infeudamento di Mosca, per ironia della storia, poté in parte ottenerlo grazia all’ombrello del nemico americano. 

Al centro del terzo capitolo c’è Palmiro Togliatti e il suo concetto di «recupero della democrazia», ovvero una sorta di uscita da “destra” (sintomatico è il recupero di un “destro” come Giorgio Dimitrov) dalla disastrosa svolta a sinistra della Internazionale Comunista nel 1928-1929, in special modo in virtù del fallimento della politica dei comunisti in Germania e della schiacciante vittoria dei nazisti nel 1934.

In tale «recupero», la protagonista non è la «democrazia borghese» e neanche una sorta di «modello democratico», di coloro che, come dice Cafagna, si dicono puramente democratici. Per l’autore, infatti, Togliatti pensa al «modello leninista» della «rivoluzione democratica», che sta sempre nella traiettoria del processo rivoluzionario comunista. La democrazia non è concepita né come un fine in sé, né tantomeno come «qualcosa che, se non sta al si sopra di tutto nella scala dei valori politici ai quali ci si richiama, fa però corpo in maniera indissolubile con l’insieme delle finalità che si perseguono senza subordinarsi ad alcuna altra […]». Il «modello leninista» di democrazia, invece, si manifesta come un «transitorio rapporto di forze»: tappe obbligate verso il socialismo. Una sorta di capsula da gettare dopo l’uso; un obbiettivo di lotta intermedio, per cui con gli altri attori politici si sarebbe percorso solo un tratto di strada. Anche se, dopo la Resistenza, ed innovando il discorso leninista, Togliatti parlerà di «democrazia progressiva», in cui non si indica più un punto preciso in cui le strade si divideranno. E riuscirà per questa via, fatta di quella «elastica durezza», che mimetizzava bene l’indugio del momento, a continuare a costruire una solida base elettorale. Cafagna indica in questa ambiguità una probabile volontà di Togliatti di tenersi aperto verso «possibili diversità di esiti storici». Esiti su cui dominavano equilibri internazionali. 

Questo percorso di «recupero» togliattiano della democrazia iniziò negli anni Trenta, in cui parallelamente in URSS incombeva il grande terrore staliniano. Un terrore che poteva essere visto come un passaggio temporaneo nella costruzione economica e sociale del comunismo. Un «baratto fra la non-libertà dei moderni e la libertà dei posteri», e al cui prolungamento lo stesso Togliatti in seguito, nel memoriale di Yalta, mosse critica postume nei confronti della dirigenza sovietica per le «lentezze e resistenze» nel «superamento del regime di limitazione e soppressione delle libertà democratiche e personali». Facendo trasparire, inoltre, un certo scetticismo per i successi economici e civili della costruzione del socialismo in Unione Sovietica. Nonostante questo, però, lo storico segretario del Pci, non trarrà le necessarie conclusioni nelle valutazioni del consolidamento che nel Dopoguerra la democrazia ebbe, rimanendo sempre scettico nei confronti della «restaurazione democratica in Europa, per non dire (inoltre) della democrazia americana». Un retaggio, questo, che aveva la sua radice nella mentalità formatasi negli anni della crisi fascista dell’istituzione democratica. Con l’aggravante di una visione del mondo estremamente eurocentrica, che lo portava a non capire mai realmente la portata né dell’entrata in gioco degli Stati Uniti, né della resilienza del capitalismo. Affermando, come fece, che pensare che negli Usa «esista una divisione dei poteri, nella pratica quotidiana, è ironia». Egli riteneva, secondo uno schema ormai obsoleto, che la democrazia in Occidente fosse incompatibile con il capitalismo. Ma qualsiasi idea di democrazia Togliatti pensasse, non trovava alcun riscontro in Unione Sovietica, i cui risultati positivi in campo sociale e politico erano sempre più difficili da evidenziare. Gli rimaneva solo da perseguire la «via nazionale», che in maniera molto cauta portava con sé una volontà di autonomia dal paese guida, che però ne garantiva ancora l’ombrello ideologico. Una sorta di “divergenza parallela”, sempre sotto il «grande protettore».

Cafagna affronta anche la continuità del Pci con il sistema istaurato dal fascismo. Nel capitolo quarto, lo storico ne analizza alcuni tratti, e parte dalla considerazione che, dalla Liberazione, il paese si trovò in una situazione di vuoto politico, con all’esterno delle potenze straniere che in sostanza sovraintendevano la politica italiana. Il corpo sociale, che ora disponeva di nuovi diritti, «si trovò sostanzialmente privato del referente di autorità anteriore al quale era più largamente legato […] (più) di quanto l’apologetica antifascista non voglia ammettere». La partitocrazia italiana, per Cafagna, si spiegherebbe anche con l’occupazione «dall’alto» avvenuta da parte dei partiti. Formati, questi, da gruppi del tutto precostituiti per le leadership, in uno spazio «strutturato autoritariamente (dal fascismo ndr) che era rimasto privo di padroni»; in un contesto dove il posto di lavoro era «un bene largamente controllato dal potere politico», con un settore pubblico dell’economia che si espandeva considerevolmente attraverso l’impresa pubblica. Senza dimenticare che, a livello sociale, era presente l’idea che il fascismo non avesse operato solo negativamente, pur se reo di aver intrapreso una guerra sbagliata, avendo garantito comunque una certa mobilità sociale, anche se di schietto carattere selettivo.

I nuovi partiti repubblicani furono considerati come luoghi di protezioni e di «accesso e redistribuzioni selettivi di vantaggi miseri e cospicui». Per l’autore, si può dire che «fu lo stesso corpo sociale investito dei nuovi diritti politici ad insegnar loro come si potesse ‘succedere’, da questo punto di vista, al fascismo». 

La sinistra, dal canto suo, era divisa in due tronconi: uno che faceva capo al sovietismo (comunisti e parte dei socialisti), l’altro che faceva della democrazia formale un punto irrinunciabile (i restanti socialisti e gli azionisti). Mentre i primi avevano nell’Urss un modello realizzato, i secondi erano privi di modelli ideali, non essendo ancora iniziata la trionfale cavalcata della crescita e istituzionalizzazione del welfare nei Trenta Gloriosi. Rebus sic stantibus, il Pci si dette alla lotta per «obbiettivi» intermedi, a modo di tattica pre-rivoluzionaria. Le riforme di cui i comunisti parlavano si mostravano come un obbiettivo indistinto, più che reale, attraverso una logica di «stato di tensione politico-sociale permanente», al fine di una infaticabile amplificazione delle aspettative. Funzionale, questo, anche ad un forte radicamento del partito nella società italiana. Tanto da staccarlo, man mano, da figura di compagine anti-sistema tout court, pur non uscendo mai dal cono di partito «a forte rendita di opposizione». 

D’altro canto, nel campo della sinistra, il Partito socialista italiano si presentava come una compagine fragile, divisa e poco autoritaria, con una cattiva strutturazione che gli impediva si assumerne il ruolo per «assolvere ai compiti di protezione dovuti da un partito secondo l’ottica ereditata (dal fascismo ndr)». Il Psi era, in definitiva, un partito senza un capo e negli anni ’50 «una espressione riflessa dell’organizzazione comunista», di cui era «ideologicamente succube». Fu in seguito Craxi che tentò di dare al suo partito una immagine di autorità e forza. Una leadership risoluta, che voleva contrapporre al catastrofismo comunista (esemplificato nel «il paese deve essere salvato»), un ottimismo di fondo. Non un salvatore, insomma, ma la cui opera non determinò mai uno sfondamento elettorale.

Nel quinto capitolo del libro, Cafagna parla di “strategia dell’obesità”, e parte dal presupposto che il Pci è stata una storia, si, di grande successo, ma un successo rimasto «interno alla opposizione vissuta come universo autogratificante». Mai ci fu lo sbocco al governo, per quello che Alberto Ronchey ha definito il «fattore K»: ad un partito anti-sistema non era concesso alternarsi alla guida del paese, e neanche coalizzarsi per questa. E, storicamente, secondo l’autore, i «comunisti stessi non possono permettersi di negare i progressi reali di una democrazia del lavoro in Italia […] senza autodichiarare solennemente una propria totale inutilità storica […]». Comunque, per la crescita del partito, Togliatti poteva contare sul rapporto con il prestigio dell’URSS; su un insieme di quadri e militanti molto disciplinati e motivati; sulla appropriazione di vecchie eredità politiche, come quella del vecchio socialismo municipale.

Cafagna prende la metà degli anni ’50 come data importante per un cambio di tattica del Pci. Perché, dopo l’armistizio nella Guerra di Corea, il decollo della Germania Federale, il rilancio del capitalismo e le prime difficoltà dell’Unione Sovietica, si doveva prendere anche in considerazione un mutamento tattico del comunismo italiano, che non poteva avere nella rivoluzione la prima scelta. Infatti, viene estromesso Pietro Secchia, con la contestuale ascesa di Amendola (il quale fu l’unico a cercare di uscire dalla logica del temporeggiamento; da quella «Grande Attesa», che poteva finire con una concreta riunificazione della sinistra, con il programmismo riformatore, la mediazione strategica delle tensioni sociali e così contribuendo immediatamente alla governabilità del paese). Questo sarà il punto in cui «l’ambiguità comunista diviene veramente patologica». Il partito passa dall’attendismo rivoluzionario, alla «strategia di accumulazione di risorse politiche fine a sé stessa, che non attendeva più nulla». L’obesità, insomma, di un corpo che cresceva molto nel tempo, apparentemente verso la ricerca di una maggioranza del 51%. La linea di Togliatti, visti questi cambiamenti, sarà orientata ad un prolungamento della tattica temporeggiatrice, che nei fatti vedrà il Pci impegnato in un nuovo dialogo con i cattolici, per una sorta di «convivenza tra diversi», senza mai aprirsi a contaminazioni con ideologie laiche. Iniziano a costruirsi i viatici per il compromesso storico berlingueriano. Ma anche se Togliatti, nel Memoriale di Yalta, capì le difficoltà e i conseguenziali arretramenti dell’URSS, lui, come i suoi successori, non seppero mai separarsi dal «morto in casa». Riformista solo nel vecchio senso del socialismo municipale, il Pci, nelle lotte nazionali, tendeva sempre a massimizzare lo stato di agitazione. Un partito obeso, appunto, ma da opposizione permanente «che non si pone mai il problema di dover successivamente gestire le conseguenze delle proprie campagne di agitazione». Giocò nel sistema, ma senza trasformare la sua opposizione da anti-sistema a costituzionale. 

Gli ultimi due capitoli del libro sono dedicati ai socialisti, che faticosamente sono tornati al riformismo, e ad una riflessione complessiva su quello che Cafagna definisce «riformismo reale».

Il Psi aveva necessità di uscire dalla “grande bonaccia”, dalle secche del frontismo. Fu Nenni che tentò di imporre in Italia il «socialismo della democrazia». Fallì, perché, secondo l’autore, il problema stava nella cultura della sinistra italiana del tempo, che non riuscì mai ad andare oltre un revisionismo di puro livello intuitivo. L’emotività politica prevalente era allora di segno nettamente anti-riformista. A Nenni, comunque, viene riconosciuto di essere stato il maggior riformista italiano per un quarto di secolo. Egli, infatti, introdusse dizioni come «la politica delle cose» o entrare «nella stanza dei bottoni», che hanno avuto il pregio di simboleggiare il senso di un’azione. Un’azione che comunque ha ispirato quasi tutte le innovazioni politiche progressiste del nostro paese: dalla Costituzione alla Repubblica, fino alle riforme degli anni ’60 e ’70.

Il più vicino a Nenni fu Lombardi, fautore anch’egli dell’autonomismo socialista e in grado di garantire allo stesso Nenni l’apporto culturale necessario. La «politica delle cose, fu fatta di cose lombardiane», che per Cafagna affondano le proprie radici nel New Deal roosveltiano, con uno stato democratico che entra in conflitto con il potere economico privato, per limitarlo, porlo sotto controllo, piegarlo a finalità politiche. In fondo, Lombardi ebbe la pretesa di smantellare le roccaforti del potere economico avendo alle spalle un partito del 15%. Ed infatti, dopo la nazionalizzazione dell’energia elettrica, le altre pretese furono in parte frustrate, trovando resistenze molto forti. 

All’interno del Psi, l’antagonista di Riccardo Lombardi fu maggiormente, per acume e capacità, Vittorio Foa, che contestava il «parlamentarismo» dell’impostazione autonomista, rimarcando, tra l’altro, che «l’acquisizione al lavoratore degli strumenti del suo domani non è cosa che possa fare oggetto di trattativa». Qualche riverbero di questo ragionamento può trovarsi nella grande mobilitazione sindacale che fu, per Cafagna, il massimo effetto del centro-sinistra. 

Un’ultima annotazione val la pena di farla sul concetto di «riformismo reale», anche perché si continua a parlare di riformismo ancor oggi, e molte volte palesemente senza dare nerbo ad un concetto che l’autore esplicava con parole chiare. «Il riformismo socialista – affermava – è, prima di tutto, convinzione attiva che il progresso sociale (nel senso che lo spirito dei tempi intende) non solo si possa, ma si debba perseguire entro ordinamenti esistenti, mutando questi, quando occorra, gradualmente, e non per via rivoluzionaria. Si debba: poiché presupposto del riformismo non è l’impossibilità pratica […] di fare la rivoluzione […] ma l’esplicita e polemica contrapposizione alla via rivoluzionaria». Ed ogni riforma nuova deve nascere da esigenze reali e non da pensieri a tavolino. «Il riformismo non è solo […] invenzione di riforme, ma anche e forse soprattutto gestione e coltivazione di queste dopo l’invenzione». Cafagna conclude il testo ammonendo a stare sempre attenti, non più all’astratto rivoluzionarismo, in linea di principio battuto. Ma al massimalismo: «un nemico di sempre, a ben vedere, ma che oggi si traveste spesso di movimentismo». Attuale più che mai.