Roberto Campo (mondoperaio 11/novembre 2020
Quando c’erano i comunisti. Libro di Mario Pendinelli e Marcello Sorgi. Con anche una lunga intervista di Pendinelli a Umberto Terracini, già pubblicata nel 1981. Non si capisce quale intenzione abbia mosso gli autori a proporre un racconto siffatto, che sembra venire dal passato, spesso agiografico e pieno di valutazioni senza riscontro, tanto più alla luce delle ulteriori conoscenze che ci sono venute dagli archivi sovietici.
L’eroe del libro è Antonio Gramsci, giustamente. Con forzature e fraintendimenti, però. Si insiste a più riprese a vedere nell’Ordine Nuovo, nella Torino industriale e operaia, l’anima del primo PCd’I, imbevuto, quindi, di modernità. Salvo poi ammettere che Gramsci, Togliatti e il loro gruppo erano piuttosto ai margini nel primo partito comunista italiano – come spiega anche Terracini nell’intervista, che ricorda il PCd’I di Bordiga: altro che fondazione torinese del partito.
Del concetto gramsciano di egemonia si dice che “conduce al funzionamento della democrazia moderna”, quando invece va letto dentro l’esigenza di Gramsci di rendere possibile anche in Occidente la rivoluzione con annessa dittatura del proletariato: il pluralismo non è ammesso. Altro che libertà come valore irrinunciabile, che gli autori vorrebbero attribuire a Gramsci. Addirittura, secondo i due giornalisti il capitalismo sarebbe stato per Gramsci un interlocutore e non un avversario da distruggere.
Di Giolitti si apprezza la riforma elettorale, ma manca qualsiasi valutazione della grande svolta che per la prima volta permetterà al movimento operaio, e in particolare al sindacato, di iscrivere le sue lotte dentro uno Stato non più pregiudizialmente nemico. Del resto, il sindacato è il grande assente in tutto il libro. Bruno Buozzi viene citato una sola volta, per un articolo scritto per Il Grido del Popolo diretto da Gramsci. Quando invece si racconta di Gramsci e dei consigli operai a Torino, non si dice nulla della FIOM di Buozzi, nulla della CGdL, nulla dell’egemonia riformista nel sindacato: ci sono solo Gramsci e gli operai, nel deserto, si direbbe. Lo stesso vale per il dopoguerra: un libro senza sindacato.
Si sottolinea il giudizio negativo dei comunisti sui socialisti massimalisti, ottocenteschi – li definiscono gli autori – ma poco o niente si dice del contrasto tra i comunisti e i socialisti riformisti; Turati viene trattato molto poco. C’è l’attenzione ai cattolici, mai quella ai socialisti. Dello sciagurato socialfascismo leggiamo di più nell’intervista a Terracini che nel corpo della storia de PCI di Pendinelli e Sorgi.
La novità di Togliatti 1944: solo a fatica si capisce nel libro che l’idea della svolta era da ascriversi a Stalin, nondimeno si insiste in più occasioni ad accreditare Togliatti. Oggi però sappiamo che la svolta di Salerno del 1944, cioè il repentino rovesciamento della linea del PCI anti-monarchica e anti-badogliana, non fu determinata da Togliatti ma da Stalin. Togliatti si adeguò: aveva sostenuto il contrario, ma Stalin decise altrimenti, per le sue valutazioni sugli interessi della politica estera dell’URSS (vedi Togliatti e Stalin, Elena Aga Rossi e Victor Zaslavsky). Ma bastava anche quanto dice Terracini al proposito: per Togliatti, dal 1928 in poi, l’ultima parola è stata sempre quella dell’Internazionale, quindi, di Stalin.
Anche a Berlinguer viene attribuita una volontà che era del tutto fuori dai suoi orizzonti: il compromesso storico sarebbe stata un’alleanza né stabile né duratura, ma solo un tratto di strada da percorrere in comune con la DC, per poi misurarsi come forze alternative. Corretta invece la valutazione del limite insuperato della strategia di Berlinguer che preferì incamminarsi alla ricerca di un’introvabile terza via che comportasse la riforma del comunismo piuttosto che riconoscere che l’unico modello praticabile era quello del socialismo riformista.
Craxi c’è pochissimo nel libro. Tanto che quando si raccontano i funerali di Berlinguer, con anche l’ausilio dei ricordi di Veltroni, non si coglie il contrasto mozzafiato tra i fischi raccolti dal leader socialista e il “nessuno fiatò” quando Pajetta andò incontro ad Almirante.
Si chiude dando per superata la stagione della sirena liberista dei laburisti inglesi e dei democratici americani – parole di D’Alema, che se ne lasciò attrarre. Superati, però, anche i Corbyn, i Sanders. Giudizi condivisibili. Non altrettanto la raccomandazione finale di tornare a Gramsci. Gramsci meriterà sempre di essere studiato, ma appartiene alla storia di una disgiunzione tra libertà e sinistra che va definitivamente consegnata al passato.