Leo Valiani

Gli sviluppi ideologici del socialismo democratico in Italia

Scheda e passi scelti a cura di Raffaele Tedesco

Questo piccolo testo che vi presentiamo, è stato redatto dall’autore nel 1952, come pubblicazione per l’Internazionale socialista. Il libro viene invece stampato solo nel marzo 1956, prima dei fatti di Ungheria del novembre dello stesso anno, i quali ebbero conseguenze importanti nella sinistra italiana. Di seguito i capitoli IV e VII del testo. Il capitolo IV descrive in maniera sintetica il ruolo fondamentale di Filippo Turati nel socialismo italiano di stampo riformista.  In Turati, infatti, pur se marxista, “mancava la ferma dichiarazione della necessità della rivoluzione proletaria”. Per il padre del socialismo italiano, come affermerà con forza ancora nel 1921 al Congresso di Livorno, quando si consumò la scissione dei comunisti, con la conseguente nascita del Partito comunista d’Italia “altro punto di distinzione (dai massimalisti ndr) è la dittatura del proletariato, che per noi, o è dittatura di minoranza, ed allora non è che dispotismo, il quale genererà inevitabilmente la vittoriosa controrivoluzione, o è dittatura di maggioranza, ed è un evidente non senso, una contraddizione in termini poiché la maggioranza è la sovranità legittima, non può essere la dittatura”. Nel capitolo VII vengono brevemente esaminati alcuni tentativi avutisi in Italia di ripensare criticamente le fondamenta della dottrina marxista. Spicca, nella ricostruzione, la figura di Antonio Labriola, il cui filone di studi fu ripreso in seguito da Rodolfo Mondolfo.

CAP. IV

Si poteva rilevare, e fu fatto da più d’una parte, che al programma marxista del Turati mancava la ferma dichiarazione della necessita della rivoluzione proletaria, l’invocazione cioè della ostetrica della storia costituita dalla violenza della classe che spezza le sue catene. Infatti, all’utilità della violenza Turati non credette mai, convinto com’era della superiorità dell’evoluzione pacifica. In ciò si differenziava non soltanto da Marx, ma dalla tradizione rivoluzionaria risorgimentale del primo socialismo italiano che sopravviveva invece, come stato d’animo a-critico, in molti dei suoi avversari. Peraltro, il Turati sentiva più profondamente della maggior parte dei suoi critici quel che era stata l’essenza del Risorgimento: la passione della libertà, — ma apparteneva idealmente a quella corrente di uomini di Stato che avevano consolidato l’unità d’Italia in un regime costituzionale parlamentare, rinunciando a perseguire invano con le armi, in una congiuntura avversa, le residue rivendicazioni nazionali o democratiche, che si dovevano ormai realizzare con la sola forza della maturazione e pressione della opinione pubblica. I suoi avversari di estrema sinistrane concludevano che il Turati rappresentava nel socialismo una mentalità liberale di origine borghese. E certamente non si poteva chiedere al Turati di credere ciecamente nelle teorie marxiste o pseudo-marxiste del crollo inevitabile dell’economia capitalistica e della proletarizzazione fatale dei ceti medi.

In che cosa consisteva invece il suo marxismo? In primo luogo, nella sua fiducia nell’azione autonoma della classe lavoratrice, che non solo non abbisogna di messia, salvatori, dittatori, ma deve anzi rifuggire da ogni miracolismo, come da ogni guida dall’esterno, dall’alto, potendo e dovendo contare sulle proprie forze e capacità d’azione, che si sviluppano necessariamente con i progressi delle industrie e con il libero esercizio della lotta di classe. Marxisticamente, Turati fidava nello sviluppo obbiettivo dell’economia moderna, dal quale dipende in ultima istanza l’esito delle lotte fra le classi sociali. Gli fu rinfacciato più volte di intendere il marxismo come determinismo economico. Ma dalla certezza — concepita effettivamente con una vena di determinismo, tra marxista e positivista evoluzionistico — della dipendenza delle soluzioni politiche finali dall’ambiente economico, il Turati ricavava non già una specie di fatalismo avveniristico, sibbene la prova della possibilità di una azione politica riformatrice del partito socialista. E cioè se il passaggio dal capitalismo al socialismo dipendeva da tutto uno svolgimento economico obbiettivo, che né il partito socialista poteva affrettare sensibilmente, né i partiti borghesi potevano impedire che si compisse a suo tempo (il che, del resto, in Italia, paese tecnicamente arretrato, non poteva esser molto vicino), ne discendeva che nulla ostava alla collaborazione politica, contingente ma attuale, dei borghesi sinceramente democratici e riformatori con gli operai socialisti consapevoli della maturazione irresistibile, ma non perciò rapida, in seno alla vecchia società, degli strumenti tecnici e organizzativi della nuova società.

CAP VII

Non mancarono in Italia tentativi molto significativi di riesaminare, dilucidare e dunque ri-pensare criticamente le fondamenta della dottrina marxista. Abbiamo già menzionato il professor Antonio Labriola. Nei suoi eruditi e acuti saggi sulla concezione materialistica della storia (1895- 98), aveva respinto sia le interpretazioni positivistiche e deterministiche (delle quali si era reso colpevole ben più di Turati il celebre criminologo Enrico Ferri, spenceriano e darwinista, che fu per alcuni anni il capo dell’ala intransigente del partito socialista e passò poi al possibilismo), che l’opposto volontarismo. La sua interpretazione del materialismo storico come filosofia della prassi, cioè di visione della realtà come attività autonoma della storia, significava l’indagine genetica e morfologica (cioè di concreta, non aprioristica storia sociale) delle condizioni di fatto nelle quali il socialismo si trovava di volta in volta a operare. Ne doveva discendere una politica a lunga scadenza, conforme alle accertate tendenze obbiettive di sviluppo storico sociale, che avrebbe dovuto sostituire la politica spicciola del vivere alla giornata. Ma questo metodo, di un livello culturale certamente molto elevato, finché rimaneva confinato nella sfera della filosofia e della sociologia, consentiva che se ne traessero sia conclusioni sagacemente rivoluzionarie, alla maniera di Marx e di Engels nel 1848, che conclusioni riformatrici di grande stile. Antonio Labriola morì troppo presto, nel 1904, per poter giungere a una scelta, cioè a conclusioni politiche impegnative nel dibattito fra rivoluzionarismo e riformismo.

La filosofia della prassi di Antonio Labriola fu ripresa dal prof. Rodolfo Mondolfo, che si distinse nello studio degli aspetti gnoseologici e etici del pensiero di Feuerbach, Marx, Engels e Lassalle. In politica, le simpatie di Rodolfo Mondolfo (che — con il fratello Ugo Guido — era apprezzato collaboratore della rivista di Turati e della Kuliscioff, la Critica sociale) erano per una politica di grandi riforme strutturali, ma egli rimase uomo di studi e scese solo di rado nell’agone della politica immediata. La sua impostazione della filosofia di Marx può dirsi, comunque, affine a quella dei neo-kantiani dell’austromarxismo, pur essendovi pervenuto egli indipendentemente da costoro. La pubblicazione degli scritti filosofici inediti di Marx e Engels confermò alcune delle sue tesi sostenute già 15 o 20 anni prima, per cui la rigidità materialistica scompariva e faceva luogo ad una metodologia storica realistica e flessibile e ad una filosofia politica intonata a spirito di libertà umana.

Altri, acuto studioso, come Gaetano Salvemini, di teoria sociale, sosteneva, coadiuvato da G. E. Modigliani e da Ugo Guido Mondolfo ai congressi del partito socialista, che la lotta per le riforme politiche basilari doveva subentrare al riformismo preoccupato di provvedimenti parziali sollecitati da interessi particolari spesso divergenti da quello generale. Nell’ostilità alla politica industriale protezionista che, favorendo oltre misura i complessi di industria pesante, da lui ritenuti artificiosi, dell’Italia del Nord, impediva lo sviluppo economico adeguato del Sud, il Salvemini non poteva trovare il consenso della classe operaia socialista, che si era sviluppata precisamente nel Nord. Maggiore eco aveva la sua denuncia della parallela pratica governativa che con Giolitti — per ottenere l’appoggio delle camorre semi-feudali del Sud, rifiutava alle masse lavoratrici meridionali il pieno godimento delle libertà democratiche acquisite nel resto d’Italia. Ma mentre a destra di Giolitti esistevano grosse forze sociali e politiche, alla sua sinistra i radicali e i repubblicani non riuscivano ad esercitare una pressione sufficiente. Un’iniziativa efficace avrebbe potuto esser presa soltanto dai socialisti, e avrebbe dovuto avere il consenso delle masse proletarie. Salvemini pensava che la situazione del bilancio dello Stato avrebbe ben presto impedito l’espansione delle spese necessarie a finanziare i provvedimenti particolari utili a questa o quella categoria di operai (legislazione sociale di tutela del lavoro nelle fabbriche, lavori pubblici, sussidi a cooperative operaie, aumento delle paghe del personale dello Stato), mentre le più profonde riforme fiscali, doganali, scolastiche, capaci di cambiare volto all’Italia e di emancipare le plebi meridionali, presupponevano una maggioranza parlamentare decisa a colpire i grossi interessi oligarchici costituiti. Soltanto l’introduzione del suffragio universale avrebbe perciò potuto, secondo il Salvemini, aprire la via alle grandi riforme di struttura.

Purtroppo, nella terapia suggerita il Salvemini doveva risultare meno efficace che non nella diagnosi del male. Lo si vide quando Giolitti introdusse il suffragio universale nel 1913. I socialisti guadagnarono molti voti e seggi, ma a sostegno delle forze conservatrici ad etichetta liberale si schierarono, per la prima volta in modo sistematico e aperto dal 1870, le forze di massa fedeli alla Chiesa cattolica. In quel momento, Salvemini stesso si era già ritirato dal partito socialista, per dedicarsi a una lotta di moralizzazione, di purificazione della vita pubblica, ma anche se fosse rimasto nel partito le sue simpatie liberiste non lo avrebbero particolarmente abilitato a facilitare i rapporti fra il socialismo e lo Stato.