La notte del 10 Maggio 1933, cinque mesi dopo l’ascesa di Hitler al potere, Berlino fu illuminata dal rogo dei libri.
Più di 20.000 volumi furono gettati dentro un unico falò per cancellare la cultura tra gli maggiori pensatori, scrittori ed intellettuali del tempo: Karl Marx, Bertolt Brecht, Thomas Mann, Joseph Roth, Theodor W. Adorno, Walter Benjamin, Herbert Marcuse, Ludwig Wittgenstein, Hannah Arendt, Edith Stein, Max Weber, Erich Fromm, l’architetto Walter Gropius, i pittori Paul Klee, Wassili Kandinsky e Piet Mondrian, gli scienziati Albert Einstein e Sigmund Freud, i registi Fritz Lang e Franz Murnau.
Mentre la cultura bruciava, Joseph Goebbels, pronunciò queste parole…: “Studenti, uomini e donne tedesche, l’era dell’esagerato intellettualismo ebraico è giunto alla fine. Il trionfo della rivoluzione tedesca ha chiarito quale sia la strada della Germania e il futuro uomo tedesco non sarà un uomo di libri, ma piuttosto un uomo di carattere ed è in tale prospettiva e con tale scopo che vogliamo educarvi. Vogliamo educare i giovani ad avere il coraggio di guardare direttamente gli occhi impietosi della vita. Vogliamo educare i giovani a ripudiare la paura della morte allo scopo di condurli a rispettare la morte. Questa è la missione del giovane e pertanto fate bene, in quest’ora solenne, a gettare nelle fiamme la spazzatura intellettuale del passato. È un’impresa forte, grande e simbolica, un’impresa che proverà al mondo intero che le basi intellettuali della repubblica di Novembre si sono sgretolate, ma anche che dalle loro rovine sorgerà vittorioso il padrone di un nuovo spirito”.
“Il Disagio della civiltà” di Sigmund Freud
Quando Freud pubblica questo saggio, in due parti tra il 1929 e il 1930 e nella sistemazione definitiva nel 1931, chiaramente avverte i tremori tutt’altro che sotterranei di un’epoca che dopo i disastri della prima guerra mondiale sta correndo verso la seconda: il mondo occidentale è nella morsa della Grande Depressione economica; in Germania, la repubblica di Weimar, ormai giunta al capolinea, soffocata da un’inflazione incontrollabile, è destinata a soccombere al nazismo. Non per la prima volta, ma senza dubbio con un’urgenza maggiore che in passato, Freud sente il bisogno di applicare gli strumenti della sua dottrina non più al singolo individuo ma all’intero contesto sociale. Alla civiltà. Per meglio dire, all’individuo inserito nel contesto sociale e al disagio che da questo inserimento deriva.
Freud intuisce ciò che sarebbe accaduto di lì a pochi anni, la seconda guerra mondiale (e, mi sia permesso di aggiungere, l’attuale stato di panbelligeranza), non perché possedesse la sfera di cristallo del mago ma perché l’affilato bisturi della sua osservazione e interpretazione del reale non gli permetteva facili vie di fuga. Non è un predicatore, non è un profeta. Anche in queste pagine, come nella sua intera opera, si avvertono lo strazio e la riluttanza a sistematizzare ciò che l’analisi gli ha suggerito; ma tant’è, della realtà bisogna prendere atto. Qui arriva a ipotizzare l’esistenza di un Super-Io della società e invita i futuri psicoanalisti a studiarne i meccanismi: forse solo da una loro comprensione potrebbero nascere prassi che permettano di riconciliarlo, nei limiti operativi disponibili, col Super-Io individuale e per lo meno attutire i colpi inferti dai sensi di colpa. Non mi risulta si siano ottenuti grandi risultati in questa direzione. Un vero peccato, perché forse ci troveremmo a vivere in un mondo diverso da quello attuale, o almeno avremmo a disposizione qualche robusto strumento di comprensione.