11 aprile 1901 Adriano Olivetti nasce a Ivrea. (Ivrea, 11 aprile 1901 – Aigle, 27 febbraio 1960)
Nel 1945 Olivetti pubblicò L’ordine politico delle Comunità che va considerato la base teorica per un’idea federalista dello Stato che, nella sua visione, si fondava appunto sulle comunità, vale a dire unità territoriali culturalmente omogenee e economicamente autonome. Divenne un sostenitore del federalismo europeo dopo aver conosciuto Altiero Spinelli durante l’esilio in Svizzera, iniziato da Olivetti nel 1944 a causa della sua attività antifascista. Nel 1948 fondò a Torino il “Movimento Comunità” e si impegnò affinché si realizzasse il suo ideale di comunità in terra di Canavese.
Il movimento, che tentava di unire sotto un’unica bandiera l’ala socialista con quella liberale (si vedano socialismo umanitario e libertario), assunse nell’Italia degli anni cinquanta una notevole importanza nel campo della cultura economica, sociale e politica. Scopo dell’iniziativa politica era creare un movimento socio-tecnocratico di una trentina di deputati in grado di costituire l’ago della bilancia fra il centro (egemonizzato dalla Democrazia Cristiana) e la sinistra (egemonizzata dal PCI). Negli anni cinquanta insieme a Guido Nadzo fu uno dei responsabili dell’Unrra-Casas, quando si cercò di operare in modo organico, in termini urbanistici; divenne promotore di uno studio sociologico sui Sassi di Matera e della successiva realizzazione del borgo La Martella. Nel 1955 durante la seconda edizione del premio Compasso d’Oro ad Adriano Olivetti venne attribuito il primo “Gran Premio Nazionale”, prestigioso riconoscimento datogli per la sua influenza nell’industria e nel design italiano[15]. Nel 1958 Olivetti fu eletto deputato come rappresentante di “Comunità”. La sua morte prematura sancì la fine del movimento.
Laureatosi in chimica industriale al Politecnico di Torino nel 1924, il primo settembre dello stesso anno entrò a far parte della società Olivetti. Nel 1925 soggiornò negli Stati Uniti, per condurvi un’accurata inchiesta intorno ai metodi produttivi e alla struttura organizzativa delle grandi fabbriche americane. Il risultato del viaggio fu una radicale trasformazione organizzativa dei cicli produttivi e dei servizi e la costituzione di un corpo di quadri giovani, dotati di preparazione scientifica a livello universitario.
Nel 1929, grazie a quest’opera di rinnovamento piuttosto insolita nell’economia italiana, la produttività dello stabilimento salì notevolmente, e pertanto in condizioni abbastanza favorevoli che la Olivetti si trovò ad affrontare la grave crisi del 1930.
Nominato direttore generale della società nel 1933, Adriano Olivetti proseguì con grande energia l’opera di rinnovamento tecnico-organizzativo, coinvolgendo peraltro in essa, oltre agli impianti di produzione, anche la comunità circostante, nell’intento di raggiungere quell’equilibrio armonico fra città e campagna, fra industria e comunità, che resterà poi il principio ispiratore delle sue mediazioni e dei suoi esperimenti sociali. Si può infatti affermare che per Adriano Olivetti, presidente della società dal 1938, l’attività imprenditoriale non si è mai posta come fine a se stessa, né mai ha potuto spiegarsi negli angusti limiti dell’ipotesi edonistica degli economisti classici; anzi, a questo proposito vorrei sottolineare un paradosso apparente, vale a dire che proprio la consegna di non licenziare mai nessuno nella fabbrica di Ivrea fece sì che la fabbrica diventasse non soltanto un modello di socialità, ma costringesse l’imprenditore a ricercare nuovi sbocchi, a comprimere i costi, ad aumentare il volume della produzione e delle vendite, e pertanto a ricercare il profitto attraverso il volume generale della produzione e non sull’unità media prodotta.
Per questo sono convinto che sia necessario rendere giustizia all’opera di Adriano Olivetti e all’intento profondo che l’ha mossa. Occorre chiarire, in primo luogo, che Olivetti non fu soltanto un buon padrone che voleva bene ai suoi operai.
A ben guardare, trattandosi di un uomo della sua modernità, questo sarebbe un giudizio offensivo. La sua opera si colloca tutta al di là delle miserabili prospettive del paternalismo padronale dell’epoca, tipico di economie chiuse e arcaiche, e delle discriminazioni avvilenti, che pur vigono ancora in molte aziende italiane.
A Olivetti, più che comandare, premeva comprendere. Uno dei punti fondamentali del suo pensiero fu appunto dato dal tentativo di umanizzare il potere economico e politico sciogliendo il dilemma di fondo del nostro tempo, che ci divide fra il bisogno di libertà individuale e le esigenze di giustizia collettiva. I lavoratori non erano per lui dei sudditi sui quali far gravare la tutela del capitalista, per quanto illuminato. La classe operai, nel pensiero di Olivetti, non può venire socialmente, economicamente e politicamente emancipata se non attraverso la consapevole e autonoma iniziativa della classe operaia stessa.[…] pp.14