24 gennaio 1979 le Brigate Rosse uccidono un operaio e sindacalista italiano che lavora presso l’Italsider Guido Rossa (Cesiomaggiore, 1º dicembre 1934 – Genova, 24 gennaio 1979)

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Operaio di origine veneta, visse per parecchi anni a Torino. Il suo primo impiego è a 14 anni come operaio in una fabbrica di cuscinetti a sfera, quindi alla Fiat di Torino come fresatore. Nel 1961 si trasferisce a Genova a lavorare per l’Italsider venendo, l’anno seguente, eletto nel consiglio di fabbrica per la FiomCgil. Iscritto al Partito Comunista Italiano, è sindacalista della CGIL all’Italsider di Genova-Cornigliano. Rossa era anche un esperto alpinista: uno dei principali componenti del “Gruppo alta montagna” del CAI Uget di Torino[1], fece parte del coordinamento della spedizione italiana, organizzata da Lino Andreotti nel 1963 in occasione del centenario del CAI, che tentò, senza riuscirvi, di conquistare in prima ascensione il Langtang Lirung (7225 m) nel Nepal.[2]
Presso la macchinetta distributrice di caffè dello stabilimento Italsider di Genova spesso si ritrovano depositati dei volantini delle Brigate Rosse furtivamente lasciati per scopi propagandistici. Rossa nota che l’operaio Francesco Berardi, addetto a distribuire le bolle di consegna nello stabilimento, si trova spesso nelle vicinanze del distributore. Il 25 ottobre 1978 gli operai trovano una copia dell’ultima risoluzione strategica brigatista, sempre vicino alle macchinette; Rossa nota un sospetto rigonfiamento sotto la giacca di Berardi, si reca negli uffici della vigilanza aziendale per segnalare il fatto e, all’uscita, una nuova copia della risoluzione brigatista è ritrovata su una finestra nel medesimo luogo.
Dopo un breve dibattito interno, l’armadietto di Berardi viene aperto ritrovandovi contenuti documenti brigatisti, volantini di rivendicazione di azioni compiute dalla BR e fogli con targhe d’auto appuntate. Guido Rossa decide di denunciare l’uomo, mentre gli altri due delegati si rifiutano, lasciandolo solo[3]. Francesco Berardi cerca inutilmente di fuggire ma viene fermato dalla vigilanza della fabbrica; si dichiara subito prigioniero politico, viene consegnato ai carabinieri e arrestato. Guido Rossa mantiene la denuncia e testimonia al processo, nel quale Berardi (morto “suicida” in carcere, forse assassinato dai suoi ex compagni) viene condannato a quattro anni e mezzo di reclusione. Temendo una vendetta dei brigatisti, il sindacato offre per alcuni mesi a Rossa una scorta, formata da operai volontari dell’Italsider, a cui lo stesso Rossa in seguito rinuncia.[4]
La denuncia di Rossa contro un brigatista infiltrato è la prima che avviene dalla loro formazione e rischia di costituire un pericoloso precedente per cui le BR decidono di reagire. La prima ipotesi è quella di catturarlo e lasciarlo incatenato ai cancelli della fabbrica, con appeso un cartello infamante, in una sorta di gogna intimidatrice. Tuttavia questa ipotesi di azione viene scartata venendo giudicata irrealizzabile; ne viene così decisa la gambizzazione, pratica frequente a quel tempo[3].
Il 24 gennaio 1979 alle 6:35 del mattino, Guido Rossa esce dalla sua casa in via Ischia 4 a Genova per recarsi al lavoro con la sua Fiat 850. Ad attenderlo su un furgone Fiat 238 parcheggiato dietro c’è un commando composto da Riccardo DuraVincenzo Guagliardo e Lorenzo Carpi. I brigatisti gli sparano uccidendolo. È la prima volta che le Brigate Rosse decidono di colpire un sindacalista organico alla sinistra italiana e l’omicidio sarà seguito da una forte reazione da parte di partiti e sindacati e della società civile, in particolare quella legata al partito comunista.
Al funerale, cui partecipano 250 000 persone, presenzia il Presidente della Repubblica Sandro Pertini in un’atmosfera molto tesa. Dopo la cerimonia Pertini chiede di incontrare i “camalli” (gli scaricatori del porto di Genova). Racconta Antonio Ghirelli, all’epoca portavoce del Quirinale, che il Presidente era stato avvisato che in quell’ambiente c’era chi simpatizzava con le Brigate Rosse ma che Pertini rispose che “proprio per quello li voleva incontrare”. Il Presidente entrò in un grande garage pieno di gente, “saltò letteralmente sulla pedana” e con voce ferma disse: “Non vi parla il Presidente della Repubblica, vi parla il compagno Pertini. Io le Brigate Rosse le ho conosciute: hanno combattuto con me contro i fascisti, non contro i democratici. Vergogna!”. Ci fu un momento di silenzio, poi un lungo applauso[5]. La salma di Rossa venne infine tumulata presso il cimitero monumentale di Staglieno.
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L’omicidio di Rossa segna una svolta nella storia delle Brigate Rosse, che da quel momento non riusciranno più a trovare le stesse aperture nei confronti dell’organizzazione interna del proletariato di fabbrica. In effetti, proprio per la delicatezza dell’obiettivo, si è ritenuto probabile che le BR avessero intenzione di punire Rossa, ma senza ucciderlo. La vittima, probabilmente, doveva essere solo gambizzata. Tale ipotesi sembra essere confermata dalle perizie e dalle successive testimonianze: Vincenzo Guagliardo, il componente del commando che esplode tre colpi calibro 7,65 alle gambe con una Beretta 81, ha raccontato che a gambizzazione avvenuta Riccardo Dura, capo della colonna genovese delle BR, dopo essersi allontanato come gli altri brigatisti dal luogo dell’operazione, era tornato indietro per esplodere l’ultimo colpo, quello che aveva ucciso Guido Rossa. L’autopsia rivela infatti che su Rossa furono esplosi quattro colpi alle gambe e uno solo mortale al cuore. Guagliardo aggiunge che il giorno dopo il delitto i membri dell’organizzazione chiesero spiegazioni sull’accaduto, al che Dura giustificò l’omicidio affermando che le spie andavano uccise.
Sempre secondo Guagliardo le BR valutarono seriamente l’espulsione di Dura, rinunciandovi però per non provocare fratture all’interno dell’organizzazione. Dura continuò quindi la sua militanza nelle BR, partecipando ad altre azioni ed entrando nel Comitato Esecutivo. La ricostruzione dei fatti di Guagliardo suggerisce che la causa dell’omicidio di Guido Rossa sarebbe da ricercare nell’iniziativa individuale del capo dei componenti del commando e non in una volontà politica delle BR di eliminare il sindacalista. La colonna genovese delle BR si assunse comunque l’intera responsabilità dell’omicidio[3][4]. Nel 2008 la figlia Sabina, deputata eletta nel Partito Democratico, si è espressa contro la decisione con cui il giudice di sorveglianza di Roma aveva negato la libertà condizionale a Vincenzo Guagliardo, che lei ha incontrato.[6]

 

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[…]La nebbia che circonda le prime BR si dissolve lentamente, ma dopo il 1975 non è più possibile ignorare che un terrorismo rosso vive nelle fabbriche e ha moventi e radicamenti operai.   Lo si capisce quando più le avanguardie rivoluzionarie e gli uomini del partito armato depongono le loro speranze nel ravvedimento del partito e del sindacato.   Si chiude la stagione in cui Curcio poteva parlare del PCI come <<di un grande movimento popolare e democratico>> e si apre quello del sindacato e del partito revisionisti, da combattere.   Dice una risoluzione strategica delle BR: <<Il sindacato è uno strumento pacifico per ottenere il consenso delle masse e l’annientamento delle forze rivoluzionarie.  Riformismo e annientamento hanno la medesima funzione: la controrivoluzione preventiva… I “vaselina” (i sindacalisti) svolgono un ruolo politico nell’individuazione delle avanguardie rivoluzionarie>>.   Dunque un terrorismo che si pone come rottura violenta e punitiva verso i traditori. E appaiono i visi, i nomi del terrorismo operaio.guido-rossa

L’Angelo Basone, che viene arrestato nel ’77 a Milano assieme a Curcio e alla Nadia Mantovani, è un operaio FIAT e attivista comunista. Ce ne parla Giuliano Ferrara, allora responsabile del partito comunista per le fabbriche: <<Tipi come lui in fabbrica ci sono sempre stati: quelli che si mettono in testa dei cortei, che danno la sprangata al capetto, che vogliono la rivoluzione domani.   Una volta non si muovevano fuori dal partito non avevano alternativa, adesso ogni tanto uno di loro si allontana verso la linea del non ritorno.    Li teniamo d’occhio, li recuperiamo quasi tutti, ma qualcuno se ne va.   Prendi questo Barone: certe sere lo vedono al dopolavoro di Mirafiori assieme a certi tipi.    Lo cerco, gli chiedo di cosa hanno parlato.   Risponde evasivo, dice che hanno fatto quattro chiacchiere, le solite storie.   Passa un mese e viene a raccontarci: “Devo tornare a Catania. Mia zia , che mi ha fatto da madre, si è ammalata”.   Poi lo ritroviamo a Milano con Curcio>>. Ferrara dice con molta onestà che il rapporto fra partito, sindacato e terrorismo di fabbrica è qualcosa di strisciante, di inafferrabile, fino al giorno in cui non decidi di strappartelo con dolore dal petto.   Sino a quel giorno devi cercare di accomodare i vasi che si sono rotti fingendo di non vederli o incollandoli alla bell’e meglio.

Sono operai comunisti, operai rivoluzionari, anche quelli che uccidono a Genova il sindacalista comunista Guido Rossa, e così gli altri che gambizzano i compagni <<piciisti>> dell’Alfa Romeo o il dirigente comunista dell’Ansaldo.   E trovano alleati, complicità negli afflitti da lavoro ingrato che ormai popolano anche gli uffici e le direzioni aziendali:   dirigenti frustrati che, per interposte persone,  lasciano fuggire certe notizie; segretarie, studiosi di sociologia, professori che senza partecipare direttamente alla riunione del partito armato diventano la sua fonte di informazione.

Nei documenti delle Brigate rosse per il ferimento di Castellano, il dirigente comunista dell’Ansaldo, o dopo il rapimento dell’industriale Costa ci sono conoscenze organizzative e scientifiche di prima mano; che devono essere venute, si dice, dal gruppo ristretto dei cinque maggiori dirigenti. […] Si diffonde, fuori e dentro il sindacato, il sospetto, la paura delle <<talpe>> intanate nei più insospettabili uffici.

Finché si può, e ancora nel 1980, il sindacato cerca di <<tirarsi fuori>> dal problema terrorismo: è una variabile che mette in discussione la sua funzione, la sua esistenza, ma non vuole vederla.   Il rigorismo è la più facile via di fuga.   […] Il cronista che interroga gli operai comunisti dell’Ansaldo dopo il ferimento di Carlo Castellano li sente dire di chi ha sparato; <<Quelli sono anti proletari, sono dei fascisti. Chi spara è fascista>>.   La manifestazione operaia indetta a Milano dopo il rapimento di Aldo Moro è definita dal discorso rigorista del segretario della Camera del lavoro De Carlini: fare il vuoto attorno agli assassini, emarginare i loro fiancheggiatori, trattarli come fascisti. Si colgono qua e là i segni di un’intolleranza antica che si presenta sotto nuove vesti: non più rivoluzionaria ma d’ordine; e la dichiarazione di guerra ai fiancheggiatori può voler dire guerra a tutti gli avversari del sindacato di linea comunista.

Chi abbia una minima coscienza della Genova operaia e dell’Ansaldo sa che l’uccisione di Guido rosa è una resa dei conti fra operai, che Rossa è stato ucciso perché ha violato il tabù operaio della delazione che, fra compagni, va comunque considerata ampia. Scrivo un commento giornalistico su la Repubblica: <<Siamo a una svolta storica. Per la prima volta nella storia del movimento, un operaio è stato ucciso da operai>>. […] pp.83

 

Disponibile presso la BIBLIOTECA NAZIONALE UIL ARTURO CHIARI