18 gennaio 1893 nasce a San Giorgio di Piano Enio[1] Gnudi (San Giorgio di Piano18 gennaio 1893 – Roma4 marzo 1949) è stato un politicosindacalista e antifascista italiano.

Gnudi si trasferisce con la famiglia a Bologna nel 1896. Qui trova lavoro come ferroviere, e nel 1919 entra a far parte del comitato centrale del Sindacato ferrovieri italiani. Rappresentante della classe operaia bolognese, milita dapprima nella corrente massimalista del Partito socialista, e nell’ottobre del 1920 aderisce alla frazione comunista. Il 21 novembre dello stesso anno viene proclamato sindaco di Bologna nella prima riunione del nuovo consiglio dopo le elezioni del 31 ottobre 1920.

“Umile e semplice operaio”, come lui stesso si definisce nel suo discorso di insediamento, si fa portavoce dei diritti dei lavoratori del braccio e del pensiero che, dice, saranno difesi anche attraverso il Comune. Come il suo predecessore Francesco Zanardi, primo sindaco socialista di Bologna, annuncia che uno dei primi provvedimenti sarà quello di garantire il prezzo equo per il pane e quindi “di elevare una protesta contro il Governo che minaccia di gravare la mano sulla folla”, perché non sono i lavoratori che debbono pagare, “ma sono coloro che dalla guerra, dalle speculazioni hanno guadagnato milioni e milioni”. Tuttavia, neanche un’ora dopo l’inizio dell’adunanza, l’irruzione armata di una squadra di fascisti provoca i tragici scontri noti come strage di Palazzo d’Accursio, a seguito dei quali il prefetto nomina un commissario straordinario sciogliendo il Consiglio comunale.

Il 21 gennaio 1921 Gnudi prende parte al congresso di Livorno che sancisce la costituzione del Partito Comunista d’Italia. Dopo pochi mesi viene eletto alla Camera ma il risultato non viene convalidato perché Gnudi non possiede l’età minima richiesta per il ruolo di deputato. Al secondo congresso del Partito Comunista del marzo 1922 viene eletto nel Comitato centrale, e in tale ruolo viene riconfermato dopo il terzo (Lione1926) e il quarto congresso (Colonia1931). Partecipa inoltre come delegato al quinto e sesto congresso dell’Internazionale Comunista, tenutisi a Mosca nel 1924 e nel 1928.

Nei primi anni del Ventennio viene arrestato ripetutamente e nel 1926 ripiega oltralpe. L’anno dopo, con il nome di Oreste, diviene segretario della commissione esecutiva dei gruppi comunisti in Francia, di cui fanno parte Giuseppe Di VittorioFrancesco LeoneMario MontagnanaEugenio Del Magro e Ottavio Pastore.

Dopo ulteriori arresti viene espulso dalla Francia il 13 settembre 1927. Rientrato brevemente in Italia, nella primavera successiva sfugge a un nuovo mandato di cattura rifugiandosi dapprima in Svizzera e poi, clandestinamente, ancora in Francia. Dal 1929 segue l’organizzazione del movimento sindacale comunista, e questo lo porta in MessicoStati UnitiArgentina e infine a stabilirsi in Unione Sovietica, prima di rientrare in Francia. Sempre ricercato, nel 1935 è a Bruxelles, mentre successivamente viene segnalata la sua presenza a Zurigo, a New York e a Toronto.

Nel 1945 torna a Bologna e nel marzo successivo viene eletto segretario generale del Sindacato ferrovieri, mentre il 24 marzo 1946 è eletto consigliere nelle prime elezioni amministrative dopo il fascismo. Muore improvvisamente nel marzo 1949, “stanco forse della vita durissima che aveva vissuto, del lavoro al quale si era costretto”, come dice Giuseppe Dozza pochi giorni dopo commemorandolo in consiglio comunale.

Enio Gnudi è sepolto nel Cimitero della Certosa. La tomba che lo commemora è un sarcofago in travertino opera dello scultore Farpi Vignoli, commissionato dal Sindacato nazionale ferrovieri, che reca la scritta “I lavoratori a Enio Gnudi”.

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Farpi Vignoli, monumento Gnudi, 1952. Certosa di Bologna, Campo Carducci.

 

[…] Nelle Relazioni  che chiusero gli esercizi della gestione ferroviaria manifestarono apertamente al potere politico l’insoddisfazione e il disagio per l’impossibilità di esercitare <<l’azione moderatrice dell’amministrazione>> a fronte di trattative e accordi che, ormai, venivano conclusi direttamente tra il governo e Sfi.   Si sottolineava così il carattere <<politico>> delle nuove misure economiche adottate per le Ferrovie dello Stato, con l’aumento degli organici e delle paghe e l’introduzione generalizzata della giornata di 8 ore, che rendeva difficile la riorganizzazione del servizio e comprometteva gravemente la condizione finanziaria dell’azienda.   Tali motivi furono alla base di un atteggiamento sostanzialmente dilatorio della dirigenza Fs rispetto all’attuazione degli accordi di gennaio, che contribuì non poco a mantenere viva la conflittualità dei ferrovieri.

I mesi che seguirono lo sciopero ferroviario del gennaio 1920 videro lo svolgersi definitivo della grande stagione dei consigli di fabbrica, che fu il tentativo più concreto di collegare il conflitto economico-sociale con un progetto politico rivoluzionario.    A guidare il movimento furono le componenti estreme: la direzione massimalista del PSI, gli anarchici, il gruppo torinese dell'<<Ordine Nuovo>> e, non senza conflitti con i gramsciani, l’Unione Sindacale italiana.   Il movimento  si svolse senza una vera leadership e in aperto contrasto con le linee del sindacalismo riformista.   I massimalisti che dominavano la direzione del Psi non riuscirono a superare un rivoluzionarismo passivo e gli unici che seppero esprimere una guida operativa del movimento, fortemente radicata sui posti di lavoro, furono gli ordinovisti torinesi guidati da Antonio Gramsci che però, ben presto, risultarono fortemente isolati anche dalle altre componenti rivoluzionarie del movimento socialista.

L’epilogo fallimentare dello sciopero generale, indetto dalla classe operaia torinese nell’aprile del 1920 con l’obiettivo di avviare la fase rivoluzionaria, fu la conseguenza inevitabile di una condizione storica della società italiana ben diversa da quella della Russia del 1917.   Se l’ottobre bolscevico aveva facilmente <<decomposto le classi dirigenti e uno Stato agonizzanti>>, il movimento dei consigli non risultò isolato socialmente e limitato territorialmente, ma ebbe di fronte uno Stato e una classe industriale che, usciti rafforzati dalla prova della Grande guerra, conservarono notevoli capacità di reazione.    Si realizzavano così le profezie di Turati al congresso di Bologna del 1919, che aveva sancito la vittoria dei massimalisti rivoluzionari, e sembrava avverarsi anche quanto aveva affermato Antonio Gramsci nel corso delle agitazione della primavera del ’20: “La fase attuale della lotta di classe in Italia è la fase che precede: o la conquista del potere politico da parte del proletariato rivoluzionario per il passaggio a nuovi modi di produzione e di distribuzione che permettano una ripresa della produttività; o una tremenda reazione da parte della classe proprietaria e della casta governativa”.

Il periodo che seguì fu caratterizzato dall’inasprirsi dello scontro sociale, soprattutto nel nord del paese, con l’occupazione armata delle fabbriche e l’intervento, se pur ancora limitato, dei carabinieri e dell’esercito.   Tra i ferrovieri non mancarono segnali di solidarietà con il movimento torinese con azioni di sabotaggio verso i convogli militari che si dirigevano al nord.

Tra il maggio e il giugno del 1920, anche a sostegno delle continue trattative per l’applicazione dell’accordo di gennaio, si svolsero ben 13 giornate di sciopero del personale ferroviario con l’intervento dello stesso Giolitti, da poco succeduto a Nitti nella guida del Governo. […] pp.146

 

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