25 ottobre 1945 

In Francia le donne vanno a

votare per la prima volta

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[…] L’esclusione del genere femminile dal voto non deve considerarsi soltanto un segno di arretratezza culturale, esso è in realtà un dato strutturalmente inscindibile dalla concezione maschile della cittadinanza, poiché essa, da Aristotele in poi, sia nella teoria che nella pratica politica, fu connessa all’essere liberi dalle necessità della sussistenza: donne e schiavi ne erano dunque esclusi. Possibilità di agire politico fu quindi volutamente confusa con capacità politica e – dalla cosiddetta democrazia ateniese alla rivoluzione francese – le donne da sempre impedite all’azione politica, ne vennero dichiarate incapaci, come i minori, i minorati, gli interdetti.

Salvo eccezioni lodevoli, Condorcet, Stuart, Milla In Italia Morelli, tale esclusione era considerata ovvia sia dagli uomini che dalle donne stesse, le quali solo con la rivoluzione francese avevano iniziato a contrastarla.

In Italia, sia per l’arretratezza economica e civile, sia per l’analfabetismo e soprattutto perché le forze migliori erano impegnate nella fondazione dell’unità nazionale, si deve arrivare al 1861, subito dopo l’unificazione, per trovare una petizione delle donne che rivendicano la loro appartenenza alla nazione e dunque quei diritti di cittadinanza piena che si esprimono anzitutto col voto.

La lotta è aperta da Anna Maria Mozzoni, la decana del femminismo italiano, seguita da una minoranza di donne consapevoli ed istruite, che parlano però anche a nome delle altre donne escluse, delle lavoratrici <<dei campi e delle officine>> che, dopo le lunghe ore di lavoro fuori della casa, trovano un lavoro altrettanto duro rientrando in famiglia; queste petizioni, queste affermazioni di principio si ripetono per tutto l’Ottocento, mentre vanno sorgendo in tutto il paese Leghe di tutela del lavoro femminile, Associazioni femminili di categoria, l’Unione femminile di Milano, e il Partito socialista che ha tra i suoi fondatori Anna Kuliscioff la quale in ogni suo scritto, in ogni conferenza o articolo, sino alla famosa <<polemica in famiglia>> del 1910, chiede per le donne lavoro e leggi di tutela, e soprattutto cittadinanza politica.

L’esercizio del voto, almeno per alcune categorie privilegiate o almeno per le elezioni amministrative, viene chiesto in diverse proposte di legge, dal 1864 al 1888, ma sempre respinto.  Nemmeno in occasione del plebiscito per l’unificazione nazionale, che avrebbe dovuto rendere esplicito ilo consenso unanime della nazione, si sente il bisogno di riconsiderare la posizione delle donne, e il suffragio maschile va allargandosi a diverse categorie nelle varie riforme, sino al suffragio universale di Giolitti del 1912-13, che ancora una volta escludeva totalmente le donne in quando genere. Da Sonnino a Zanardelli, dai rappresentanti di Destra a quelli della Sinistra, la estensione del suffragio, è considerata <<non praticabile>>, più che per ragioni di principio per ragioni quasi universalmente accettate, di opportunità e costume.  Eccezioni luminose sono sia Mazzini sia Garibaldi, impegnati però in diverso modo, a costruire l’unità nazionale.

Le donne organizzate nelle leghe e nelle associazioni, le più consapevoli ed emancipate, si battono tuttavia, prima della riforma giolittiana per ottenere il voto e si uniscono in Comitato pro suffragio nelle diverse città sin dal 1905. Nel 1906 si federano nel Comitato nazionale: sull’imminenza del suffragio universale, le donne chiedono di far parte dell’universo. […] pp.23

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Nuova Zelanda Australia Finlandia Norvegia Danimarca Islanda. Unione Sovietica Austria Canada. Gran Bretagna. Irlanda. Olanda Germania. Usa Svezia Spagna Giappone Francia Italia. Belgio Grecia Svizzera Il voto alle donne. … la lunga marcia del suffragio femminile. 1917: suffragiste manifestano davanti alla Casa Bianca.

Disponibile presso la Biblioteca Nazionale UIL Arturo Chiari