[…] Il sindacalismo del pubblico impiego (1927-1930)
“Che il sindacato voglia essere il partito della
realtà economica, al di sopra di qualunque
moto ideologico, è verità lampante. Che il partito
voglia usare del sindacato come di un elemento
d’urto nei confronti della vecchia società, è
altrettanto certo. Ma se il sindacato e partito,
abusando dei loro compiti vengono meno ai
loro ruoli, politico ed economi, è il caos.”
Y. De Begnac, Taccuini mussoliniani
Tra Rossoni e Turati
Del tutto diverso da quello finora descritto si presenta il quadro dei rapporti tra fascismo e impiegati statali una volta stabilizzato il regime politico-istituzionale con gli importanti e definitivi interventi legislativi seguiti al delitto Matteotti. Come ogni nuovo ceto politico alle prese con la direzione dello Stato, dai tempi della rivoluzione francese in poi, anche il fascismo doveva constatare che la burocrazia è il corpo più stabile e inamovibile degli Stati moderni. Come renderla più malleabile e rispondente ai fini di una leadership che proprio sui rapporti tra società e istituzioni dello Stato intendeva misurare la propria rottura con passato? Punire con una epurazione esemplare i colpevoli del mancato spontaneo sostegno al nuovo movimento? Certo, il fascismo riesce a cambiare qualche prefetto, ma nulla di paragonabile con quanto – lo si è appena visto – Mussolini in persona avrebbe voluto fare ma non poté, perché gli mancavano gli uomini nuovi con cui sostituire i <<carrieristi>>.
Impensabile, d’altronde, mutare i verti dei ministeri, tutti protetti da rigide norme di carriera e sottratti da tempo alla discrezionalità politica. Impossibile anche ricorrere a quadri alternativi: l’esperienza dei <<gruppi di competenza>> aveva mostrato che nessuna penetrazione era praticabile nei ministeri dall’esterno, sia per mancanza di personale adeguato, sia per la resistenza opposta all’interno, sia infine per l’eventualità del costituirsi di forze organizzative rivali rispetto al partito. Tuttavia,se una sostituzione souple era impossibile, perché rischiava di restare intrappolata nelle difese legali e corporative, quella brusca e violenta appariva inopportuna.
Certo, la strada dell’attacco frontale si addiceva alla ideologia dello squadrismo e infatti fu avviata dal partito, allora guidato da Farinacci, con le numerose campagne di stampa contro il connubio burocrazia-massoneria, preludio della legge che rese illegale l’appartenenza a società segrete per gli impiegati pubblici (ai quali si chiedeva anche di dichiarare se vi avessero mai appartenuto in passato) e che fu seguita nel 1926 dall’altra legge, già illustrata, relativa alla possibilità di licenziare gli impiegati che si fossero posti in condizioni di incompatibilità con le direttive del governo. Ridefinito, grazie a Rocco, un quadro giuridico che sanciva il passaggio del fascismo da <<governo>> a <<regime>>, forti dell’appoggio mussoliniano, riacquistano voce nel partito i <<burocrati d’assalto>> del primo fascismo, accomunati nel 1924 alla sorte toccata a Rocca e ora in singolare alleanza con il partito dello squadrismo provinciale.
Ritroviamo Lolini – già autore della relazione conclusiva del <<gruppo di competenza>> sulla pubblica amministrazione e fautore della formazione di una élite morale e intellettuale di funzionari amministrativi forniti di titoli ma anche dotati di piene responsabilità direttive – lamentare l’eccesso di legislazione, la mentalità <<razionalista e meccanicistica>>, dolersi del fatto che la recente riforma sia stata affidata, per colmo di ingenuità, proprio alla vecchia burocrazia, al di fuori di ogni partecipazione del <<gruppo di competenza>> o dei <<consigli tecnici>>. Così si era ottenuto di conservare la <<casistica>> senza un vero ordinamento, un inquadramento economico laborioso senza la riorganizzazione dei servizi auspicata dal <<gruppo>> (che era costituito <<da funzionari fascisti, appartenenti alle varie amministrazioni statali>>).
Cavalcando lo slogan di Farinacci, <<fascistizzare la burocrazia>>, Lolini ribadisce (che ora nel gennaio del 1926) l’auspicio già formulato in chiusura della relazione del <<gruppo>>, quello dell’istituzione alle dirette dipendenze della presidenza del Consiglio di un ispettorato o commissariato per la riforma, in cui includere uomini che appartengono o abbiano appartenuto alla pubblica amministrazione, indipendentemente dal grado, ma che diano serie garanzie di <<possedere una fede incrollabile nella decisa volontà del fascismo di rinnovare la pubblica amministrazione>>. Sempre in questi mesi, ancora Lolini chiede esplicitamente che i vecchi burocratici, pronti a servire qualsiasi padrone, siano sostituiti da uomini di <<provata fede fascista>> perché, a suo avviso, l’entusiasmo, che è più importante della cultura, deve prendere il posto di una mentalità culturale<<tutta pervasa di razionalismo meccanicistico>> e di fede nell’obiettività delle norme giuridiche.
Su queste ultime posizioni, accanto a Lolini, troviamo anche il giovane segretario della corporazione degli impiegati, Aldo Lusignoli, il qualche chiede che agli ostruzionisti presenti al vertice della burocrazia si sostituiscano dei fedeli fascisti promossi dai gradi inferiori o chiamati dalle province.
Era evidente che il partito si era ormai conquistato un seguito considerevole tra i gradi medio-bassi dell’amministrazione statale e nelle file dei funzionari locali: ciò gli consente di svolgere un ruolo attivo nell’epurazione dei massoni e degli antifascisti e di tentare addirittura di costituire propri gruppi politici all’interno dei ministeri sotto il controllo del Direttorio. Ma la sconfitta dello squadrismo che si consuma propri in questi mesi e l’allontanamento dalla segreteria del partito di Farinacci portano anche allo scioglimento di questi gruppi nel novembre del 1925. […]