16 giugno 1944 1.488 operai genovesi vengono deportati a Mauthausen.
Lo sciopero era iniziato 10 del 1° giugno.
A dare coraggio agli operai erano le notizie che giungevano sulla liberazione di Roma e dello sbarco alleato in Normandia, ma il 16 giugno, verso le 14, ingenti forze nazifasciste con un’azione fulmine circondano e occupano quattro fabbriche: Siac, San Giorgio, Cantiere e Piaggio. Gli operai sono radunati nei piazzali, selezionati, caricati a centinaia su autobus e camion. Qualcuno cerca di fuggire, ma nessuna resistenza è possibile. Due giorni dopo la stampa cittadina pubblicherà un comunicato del comando tedesco: “L’operazione svoltasi ieri in seno agli stabilimenti Siac, San Giorgio, Cantiere Ansaldo e Piaggio, ha chiaramente dimostrato che le forze armate del Reich e le autorità italiane, sanno prendere anche energici provvedimenti per colpire sobillatori, scalmanati, scioperanti, sabotatori.” “Vi avevo messo sull’avvertita – aggiungerà il prefetto Basile – Non avete voluto ascoltarmi… Oggi più di uno di voi si pente amarissimamente di essersi lasciato sedurre ed illudere”.
[…] Un altro elemento, componente essenziale della <<politicità>> del sindacato, assume notevole importanza: il rifiuto del corporativismo, dell’aziendalismo, della esclusiva tutela degli strati forti della classe operaia,in dome della difesa delle condizioni di vita dell’insieme dei lavoratori, dei disoccupati, per l’occupazione e la tutela del potere d’acquisto del salario. Al di là di ogni giudizio storico-politico al riguardo, che valuti in che misura la Cgil abbia concretamente operato perché la sua natura di sindacato di <<classe>> non corporativo avviasse un reale processo di perequazione salariale e normativa, è un fatto che la situazione sociale ed economica all’Atto della Liberazione autorizzava una scelta strategica tesa a unire i lavoratori, a superare il tradizionale divario tra Nord e Sud, tra categoria e categoria, tra occupati e disoccupati, passando sopra i rischi, anche gradi, di un distacco del sindacato dalla fabbrica.
La dimensione drammatica dei problemi, dai milioni di disoccupati e di reduci alla necessità quotidiana di garantire la sopravvivenza – perché di questo si trattava – ad una popolazione stremata dalla guerra, è ben presente alla Cgil e si carica di una particolare tensione morale e politica in alcuni dei suoi dirigenti, come Di Vittorio. Basterà ricordare a questo proposito il suo intervento al convegno delle organizzazioni sindacali della Cgil dell’Italia liberata del gennaio-febbraio 1945. Di Vittorio sottoponeva all’approvazione dei delegati proposte improntate alla volontà di esaltare il ruolo dell’autonomo e diretto intervento della Cgil e dei lavoratori per il miglioramento delle condizioni di vita e per un diverso assetto della società italiana. La lotta contro la borsa nera e l’inflazione non doveva essere affidata e delegata al governo, ma doveva avere come protagoniste le masse, nell’ambito di un piano di ricostruzione (a sua volta frutto della mobilitazione dei lavoratori) che privilegiassero l’interesse collettivo contro la logica del profitto priva.
Questa linea non trovò concreta applicazione: prevalse la tendenza a delegare ai partiti il compito di farsi carico delle scelte di politica economica. L’indispensabile e pressante necessità di una rapida ricostruzione; l’urgenza drammatica dei problemi quotidiani, ma anche il particolare rapporto del sindacato con le forze politiche, derivante non solo da consolidate convinzione teoriche quanto piuttosto dal modo stesso in cui la Cgil è sorta; i grandi traguardi istituzionali di cui ci si fa carico; una certa fragilità culturale che porta nei fatti ad un’accettazione di posizioni liberistiche classiche, prevalenti in seno all’antifascismo; un insieme, dunque, di condizionamenti oggettivi e di debolezze soggettive fa sì che il sindacato non faccia oggetto di elaborazione e di contrattazione autonoma le scelte di politica economica. Era evidente, di conseguenza, il rischio che la ricostruzione si limitasse alla semplice riattivazione delle strutture produttive, guidata dai tradizionali gruppi di potere, senza che vi si introducessero sostanziali elementi di rinnovamento.
L’impostazione strategica di fondo del sindacato, qui in breve riassunto, si traduce in determinate scelte a carattere contrattuale e organizzativo. Anche i criteri organizzativi adottati, infatti, si spiegano alla luce della concezione prevalente della funzione del sindacato. Il rifiuto del corporativismo, dell’aziendalismo, la volontà di essere l’organizzazione di tutti i lavoratori spiega il netto prevalere delle strutture <<orizzontali>> (Confederazione, Camera del lavoro) su quelle <<verticali>> (Sindacati di categoria) prevalere, del resto, rafforzato e in qualche modo legittimato dalla forte politicità insita nell’adesione dei lavoratori al sindacato, visto come agente fondamentale, insieme al partito, di un processo di costruzione di una nuova società e parimenti espressione di interessi comuni, perché sostanzialmente comuni sono i problemi del presente. […]
Tratto dal libro “Storia della Camera del lavoro di Genova – Dalla Resistenza al luglio ’60” a cura di Paride Rugafiori e Paolo Arvati (pp.52/53)
Disponibile presso la Biblioteca Nazionale UIL Arturo Chiari