[…] A Matteotti non sfuggiva neppure il nodo dello spazio politico, e in particolare delle dimensioni idonee a favorire o meno il processo riformatore.
Nel sua idea di socialismo il problema si riproponeva sotto due profili.
La logica della socializzazione era alternativa a quella capitalistica, ma era pur sempre ad essa correlata: la grande azienda, l’ampiezza del marcato e l’economia di scala, la mobilità degli uomini e dei beni, lo sviluppo tecnologico con l’industrializzazione e l’espansione dei trasporti, la città, l’istruzione diffusa e perfino il godimento di un maggior tempo libero costituivano requisiti irrinunciabili dello sviluppo, senza il quale sarebbe stato inconcepibile anche il processo di emancipazione.
Ciò induceva a guardare con sospetto il piccolo, al quale si poteva concedere credito solo se e in quanto tramite l’associazione riacquistasse quella più ampia dimensione che lo avrebbe reso idoneo a cogliere le occasioni offerte dallo sviluppo tecnologico e le sollecitazioni del mercato.
Perfino quando parlava della “campagna senza fine del Polesine”, Matteotti si sforzava di considerarla come una sorta di “grande centro” o “città” , purché pervenisse all’unione dei comuni su scala provinciale.
Al tempo stesso riteneva essenziale conferire allo spazio politico una fisicità, possibilmente densa e mobile, come poteva esserlo una rete infrastrutturale che innervasse il sistema locale superando la frammentazione e l’isolamento, e con ciò la condanna all’inefficienza.
Nel Consiglio provinciale di Rovigo, Matteotti dedicò molta attenzione al problema delle tranvie a vapore; alla costituzione di una rete intercomunale telefonica, che inizialmente abbracciasse 14 comuni; alla costruzione di un nuovo ponte sull’Adige; alla manutenzione delle strade provinciali.
A proposito della rete tranviaria si diceva certo la avrebbe incrementato “la somma dei desideri dei lavoratori” e “migliorata la qualità dei piaceri ricercati (viaggi, istruzione generale e professionale) staccandoli così dall’antica e dai clericali lodata facile contentabilità delle provincie classi povere”. Insomma, c’era la fiducia che la mobilità, traguardo storicamente inarrivabile per i lavoratori dei campi se non per emigrare, costituisse di per sé un fattore di emancipazione culturale, tale da contrastare l’atavico e passivo attaccamento viscerale al pezzo di terra coltivata.
Da lì passava lo stesso disegno riformatore della “grande città” polesana, che non poteva prescindere dall’impulso dell’organizzazione dei lavoratori ne mentre imparavano a gestire la cosa pubblica, dai nuovi organismi economici e sociali improntati alla solidarietà, e dalla riqualificazione degli enti territoriali.
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Tratto dal libro “Giacomo Matteotti eroe socialista” a cura di Maurizio Degl’innocenti

Disponibile presso la Biblioteca Nazionale UIL Arturo Chiari