[…] Questo libro ha una sua storia. Nella prima edizione, curata dall’indimenticabile amico Carlo Rosselli, era pronto per essere posto in circolazione nel novembre del 1926. Sopravvennero le leggi eccezionali che soppressero ogni residua libertà di stampa e di propaganda. Il libro fu sequestrato e mandato al macero, mentre io prendevo la via dell’esilio.
E’ sembrato al “Centro di Studi Sociali” che mettesse conto di ristampare un volume rimasto ancora vivo e attuale, non starò io a dire per un suo valore qualunque, ma per l’insegnamento che scaturisce dalla nostra storia di ieri nel riprodursi di più di una esperienza di allora, alla quale esso, oggi come allora, mi sembra rispondere. Ed io lo lascio tal quale uscì dalla penna ventt’anni or sono, affidando al lettore la cura di ritrovare da solo il nesso logico fra la critica che muovevo, nel 1925, al massimalismo e al riformismo, legati da due fatalistiche interpretazioni del marxismo, ed il realismo rivoluzionario che ho cercato di imprimere al movimento socialista, richiamando i lavoratori alla coscienza che ogni lotta di classe è essenzialmente una lotta politica: una lotta per il potere. Ache affido al lettore il compito di individuare nella campagna per l’unità socialista, da me iniziata nel 1925 e portata a compimento nel ’30 con la fusione fra massimalisti e riformisti avvenuta a Parigi, la premessa della attuale campagna per un partito unificato di tutti i lavoratori italiani.
In testa a questa seconda edizione della <<Storia di quattro anni>> scrivo con commozione il nome di mia figlia Vittoria.
Aveva dieci anni quando ho scritto questo libro, e la sua bellezza, la sua spensierata allegria, erano l’ornamento e la gioia della nostra famiglia. Ricordo il suo spavento quando venne ad abbracciarmi, prima che partissi per la Francia, e mi raccontò come, tornando dalla scuola, avesse incontrato per le scale di casa i fascisti reduci dalla devastazione del nostro appartamento, i quali le avevano strappato di mano la cartella, minacciandola di far fare a suo padre la fine di Matteotti.
Povera la mia figliola!
Il destino, che è sovente iniquo, ha riservato a Lei una fine che supera in tragicità qualsiasi immaginazione.
Cresciuta con me in esilio, andata sposa al giovane francese Henri Daubeuf, non è a dire che la mia Vittoria fosse una militante nel senso comune del termine. Professava, anzi, per le lotte politiche un suo istintivo disdegno benché, per educazione e inclinazione, fosse interamente acquisita alla causa dell’antifascismo e del socialismo.
L’invasione della Francia, ponendola a tu per tu con nazifascismo, vinse il femmineo ritegno a buttarsi nella lotta e fece di lei e di suo marito due elementi attivi della resistenza che ha salvato la Francia dalla duplice onta del nazismo e del governo fantoccio di Vichy.
Assieme a suo marito fu arrestata a Parigi il 21 giugno 1942 dalla polizia che conservava il nome di francese pur lavorando con i tedeschi. Mio genero fu fucilato l’11 agosto nel fossato del forte di Mont-Valerien. Mi a figlia fu internata nel forte di Romainville e avviata, nel gennaio 1943, verso Auschwitz, assieme a duecento compagne.
Di Lei, una delle rare sopravvissute mi ha raccontato tutta una serie di episodi i quali La mostrano, nell’orrore senza euguali del campo di morte, ostinata e intrepida al di là delle stesse forze fisiche che finirono per abbandonarla senza scuoterne le forze morali.
Quando a Romainville giuse l’ordine della partenza per il campo di concentramento in Germania, Le fu detto dal comandante del forte che rivendicando la sua nazionalità italiana poteva evitare la deportazione. Rispose che suo padre avrebbe dovuto vergognarsi di le ove si fosse, con un simile mezzo, sottratta alla solidarietà che La legava ormai indissolubilmente alle sue compagne.
Nell’orrida e concia baracca dove in punto di morte le deportate erano gettate a mucchi, ridotta tutta una piaga divorata dalla febbre tifoide, gonfie le gambe per il lavoro nelle mortifere paludi, trovò l’energia di affidare ad una compagna questo messaggio: <<Dite a mio padre che ho avuto coraggio fino all’ultimo e che non rimpiango nulla!>>.
Con ciò, la mia figliola, umiliava idealmente ai suoi piedi l’orgoglio satanico dei carnefici e lasciava alla mamma, alle sue sorelle, a quanti della nostra grande famiglia di esuli l’hanno conosciuta ed amata, lasciava a suo padre un esempio di carattere che tutti vorremmo poter eguagliare; che sarà in ogni caso la sorgente di purezza dalla quale io spero di saper trarre,in ogni occasione, la forza per servire senza debolezza l’ideale al quale Ella è stata immolata. p.n.
Roma ottobre 1945
[…]
Tratto dal libro “Storia di quattro anni” di Pietro Nenni
Disponibile presso la Biblioteca Nazionale UIL Arturo Chiari