[…] Nel periodo della guerra poi la giustificazione della “difesa della patria” venne messa avanti ogniqualvolta si trattava di peggiorare le condizioni degli operai e imporre loro nuove restrizioni. I casi di assenza, come già venivano puniti colla detrazione del 30 per cento del salario e col licenziamento se l’operaio si assentava per tre volte l’anno il giorno postfestivo, dal 1039 al 1943 vennero puniti più rigidamente. Il contratto collettivo per gli operai dell’industria meccanica e affini del 20 febbraio 1929, per esempio, puniva queste mancanze colla detrazione del 25 per cento dal salario e in alcuni casi del 30 per cento. Dal 1940 nei casi di assenza tale detrazione salì al 50 per cento, e quando gli operai furono in parte militarizzati, per i casi di assenza che si protraevano per più di un giorno era previsto l’arresto: l’abbandono equivaleva a diserzione. Nel solo 1942 alcuni dati raccolti in circa 200 fabbriche di Milano, Torino e Genova segnalano oltre 150 arresti provocati dalle suddette ragioni. Dal 1941 in avanti i giornali fascisti ostentavano, nelle loro cronache, le notizie di arresti di operai per infrazioni ai regolamenti di fabbrica.
Nel 1940 infine gli operai delle industrie interessate alla difesa nazionale vennero sottoposti a regolamenti speciali. L’operaio assegnato a una data fabbrica non poteva muoversi senza ordini dall’alto ed il suo trasferimento ad un altro stabilimento era deciso il più delle volte d’autorità, senza tenere in alcun conto le esigenze dell’interessato. Il servaggio della gleba che legava nel medioevo il contadino alla terra, non si differenziava troppo dal moderno servaggio industriale. Sotto i bombardamenti aerei, gli operai, nelle fabbriche prive di rifugi erano invitati a uscire all’aperto, ad arrangiarsi e a riprendere il lavoro appena cessato l’attacco aereo. Il contratto collettivo nazionale del 10 giugno 1940 riguardante il trattamento economico da praticarsi agli operai che i datori di lavoro avevano la facoltà di prolungare l’orario normale di lavoro retribuendo i lavoratori a regime normale per il tempo corrispondente alle sospensioni di lavoro verificatesi durante l’allarme.

Ciò voleva dire che l’operaio, se perdeva alcune ora e per un allarme aereo, ore passate all’aperto o esposto al pericolo, doveva poi ricuperare le ore perdute, nel periodo massimo di sessanta giorni come diceva l’art.2 , compiendo giornate lavorative di undici-dodici ore se il suo turno era di dieci ore o di nove-dieci se il suo turno era di otto. Se poi egli non riusciva a compiere queste ore straordinarie per ricuperare quelle perdute, l’articolo 3 del contratto stabilisce che queste gli potevano essere con un salario normale solo se il lavoro era stato interrotto per meno di trenta minuti e soltanto con 50 per cento se la durata della sospensione superava la mezz’ora. In seguito, quando gli allarmi divennero più frequenti e cominciarono i bombardamenti su vasta scala, le ore perdute nelle fabbriche non furono più pagate; di modo che il salario poteva essere diminuito in un del 10 o anche del 15 per cento in alcune regioni. Nell’ottobre-novembre 1942 e nell’agosto del 1943 si ebbero dei casi in cui, in seguito agli allarmi e ai bombardamenti incessanti, alcuni reparti di operai delle città industriali del nord, persero il 15-18 per cento del salario settimanale. […]

Tratto dal Libro “Le condizioni della classe lavoratrice in Italia 1922 -1943” di Bruno Buozzi

Disponibile presso la Biblioteca Nazionale UIL Arturo Chiari