…”Nei primi mesi del 1921, infatti, l’inaspettata crisi internazionale del mercato dei metalli aveva costretto le società minerarie ad adottare delle misure alquanto drastiche, fra le quali la soppressione del lavoro straordinario e a cottimo, nonché la chiusura di alcune importanti miniere, cui era seguita la decisione di procedere a dei licenziamenti su vasca scala. Proprio in quell’anno il numero di operai impiegati nelle miniere passò dalle 10.500 unità del mese di gennaio alle circa 3.500 di settembre.
Mettendo in discussione i risultati faticosamente ottenuti a dicembre, la Federazione Minatori di Sardegna si trovò costretta, suo malgrado, ad accettare una riduzione del 25% dei salari. A ben considerare, da parte del sindacato non ci fu un ripiegamento strategico ispirato agli orientamenti riformisti, quanto invece una presa d’atto circa la crisi generale che si stava attraversando e rispetto alla quale il movimento operaio – rebus sic stantibus – era chiamato a misurarsi ancora una volta. In realtà, la reazione dei lavoratori di quel frangente fu nello sdegno dello sconcerto e della sfiducia rispetto alla soluzione compressiva offerta dal sindacalismo riformista, la quale se da un alato riusciva a strappare dei risultati considerevoli con la mobilitazione generale, gli scioperi e la pratica dell’ostruzionismo (come nel caso dell’ultima vertenza), dall’altro lato, però, costringeva i lavoratori a retrocedere inesorabilmente e a scendere a compromessi con la controparte in nome di un presunto realismo.”…

Tratto dal libro “Storia del movimento sindacale nella Sardegna meridionale”

Disponibile presso la Biblioteca Nazionale UIL